Page 888 - Shakespeare - Vol. 4
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possiedo / È solo mia, ed è poca...» (Epilogo, 1 sgg.).
          Ma la vera importanza dell’epilogo − al di là della sua natura convenzionale,
          di serale saluto al pubblico − sta nel fatto che attraverso di esso si stabilisce
          che il vero protagonista di questa ricerca sul teatro è per l’appunto il pubblico,

          è lo spettatore. Tutto deve essere demandato allo spettatore perché è a lui
          che Shakespeare ha fatto compiere, facendolo assistere alla rappresentazione
          della Tempesta, l’esperienza epistemologica che si è descritta. È lui che ha
          compiuto il cammino tra i vari modi di far teatro. È lui, in definitiva, nemmeno

          Shakespeare,  che  deve  scegliere,  tra  le  vie  del  teatro  che  gli  sono  state
          presentate, quale sia quella da percorrere. E se questa posizione privilegiata
          dello  spettatore  è  intrinseca  alla  natura  del  teatro  −  un’arte  che  non  è
          solitaria,  e  di  cui  il  pubblico  è  parte  integrante  e  necessaria  −  essa,  nella

          Tempesta, lo è in misura estrema proprio per il carattere metateatrale così
          fortemente presente nell’opera. Dal momento in cui, dopo l’iniziale tempesta,
          il meccanismo metateatrale si mette in moto, e Prospero dice a Miranda: «Lo
          spettacolo orrendo del naufragio / Che in te ha toccato l’essenza della pietà /

          L’ho concertato io...» (I, ii, 26 sgg.), lo spettatore è collocato in una posizione
          di  straniamento  (in  senso  già  pienamente  brechtiano)  dalla  quale  non  si
          discosterà più: e che anzi, col procedere dell’anatomia, della messa a nudo e
          insieme in discussione del teatro e dei suoi strumenti, col disvelamento delle

          sue forme e dei suoi stessi trucchi, delle sue funzioni e delle sue «macchine»,
          della sua celebrazione e insieme dissacrazione, si farà sempre più imperiosa
          e consapevole.
          D’altro canto, questo «straniamento» dello spettatore che il metateatro esige

          e consegue, era tanto più necessario, nella Tempesta, in quanto se nell’opera
          c’è una ricerca intorno al modo di far teatro (che del resto è implicitamente
          ricerca di come porsi di fronte alla realtà tutta, anche politica) essa è parte di
          una ricerca più vasta, e che quella include, intorno ai modi di conoscere il

          reale − e che si effettua sia attraverso l’anatomia del teatro in quanto non
          solo teatro ma anche metafora della vita, come sempre in Shakespeare, sia
          attraverso il processo di conoscenza che tutti i personaggi subiscono. Perché
          questo è il vero centro, il vero plot  della Tempesta, dal quale tutti i motivi

          che abbiamo individuato (e altri che si potrebbero individuare in quest’opera
          quasi  «miracolosa»,  come  diceva  Coleridge,  che  ha  la  complessità  e
          polivalenza del mondo) si dipartono e al quale tutti ritornano: la ricerca non
          del  significato  ultimo  della  realtà  (ché  Shakespeare,  come  Ben  Jonson  nel

          Volpone, ha ormai rinunciato a compierla) ma dei modi e della misura in cui
          l’uomo  può  conoscerla,  penetrarla,  comprenderne  il  movimento,  il
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