Page 883 - Shakespeare - Vol. 4
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quest’isola  dove  l’udito  conta,  si  direbbe,  assai  più  della  vista,  e  tutti
          ascoltano musiche e suoni e rumori e voci; quest’isola che è come una grande
          conchiglia  sonora  in  cui  echeggiano  i  suoni  tutti  del  microcosmo  che  essa
          diventa, in cui c’è la voce della natura e quella dell’uomo e degli animali e

          delle piante. Dirà Caliban, che dell’isola è stato il signore e che con l’isola si
          identificava e a quella identificazione vuole tornare − dirà Caliban, con quel
          suo linguaggio appreso dalla cultura bianca che è però tutto sostanziato, e
          drammaticamente  lacerato,  dalla  voce  dell’isola:  «Non  devi  aver  paura.  /

          L’isola è piena di rumori, / Suoni e dolci arie / Che danno piacere e non fanno
          male» (III, ii, 133-4).
          E c’è poi la musica del linguaggio − un linguaggio, quello della Tempesta, che
          non ha la ricchezza immaginifica e metaforica di altre opere, e per esempio

          delle grandi tragedie, ma non l’ha, a mio avviso, anche perché la funzione di
          penetrazione  e  insieme  connessione  della  realtà  che  hanno  le  immagini  in
          Shakespeare e nel teatro elisabettiano è assolta dalla musica nel senso che si
          è detto, ma anche dalla musica verbale, dal fitto tessuto sonoro costituito sia

          dalla grande varietà di linguaggi usati, un vero universo linguistico, sia dai
          suoni delle parole, dalle allitterazioni e dalle onomatopee, dalla ripetizione
          regolare  di  singoli  aggettivi,  nomi,  avverbi  (brave,  per  esempio,  oppure
          strange,  strangely,  monster),  una  musica  verbale  che  ora  si  distende  in

          melodie struggenti, ora si fa disarmonica e aspra e sincopata come nei versi
          del «metafisico» John Donne (l’incontro di Caliban con Prospero è, di tutto
          questo, fin emblematico: «As wicked dew as e’er my mother brush’d...», I, ii,
          323 sgg.). E c’è, infine, la musica come struttura, perché questo fitto tessuto

          sonoro  (del  quale  altri  elementi  si  potrebbero  indicare,  come  gli  effetti
          prodotti  dall’accostamento  e  addirittura  dall’urto  di  diversi  linguaggi  −  e  si
          veda  la  comparsa  di  Stefano  e  Trinculo  −  è  calato  in  una  vera  e  propria
          partitura musicale, persino anticipatrice degli sviluppi successivi della musica,

          con la sua ouverture e poi i suoi vari movimenti, i suoi temi ricorrenti, le sue
          ripetizioni e variazioni e ampliamenti e ritorni (e si pensa ai Four Quartets di
          Eliot  sui  quali  la Tempesta  lasciò  certo,  come  s’è  già  notato,  una  traccia
          profonda).  Si  potrebbe  leggere  tutta  l’opera  in  questa  prospettiva,  se  non

          fosse chiaro, anche dai pochi esempi che si son fatti, che l’uso dei suoni, della
          musica,  non  è  mai  fine  a  sé  stesso  ma,  mentre  esercita  quel  controllo  del
          materiale di cui si diceva, è sempre in funzione del discorso drammatico −
          non solo, ma proprio perché la musica legge il reale non in termini qualitativi

          ma quantitativi, è forma perfettamente adeguata a una drammaticità intesa
          non a rappresentare un conflitto morale ma a cogliere il ritmo, il movimento,
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