Page 880 - Shakespeare - Vol. 4
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PREFAZIONE







          Rappresentata  per  la  prima  volta  a  Corte  nell’estate  del  1611  e  poi

          nell’inverno del 1612-13, La tempesta è l’ultima opera interamente dovuta a
          Shakespeare  (e  infatti Enrico  VIII  e  ancor  più I  due  nobili  congiunti  sono
          drammi scritti in collaborazione, soprattutto con Fletcher) dopo la quale egli

          si  ritirò  a  Stratford-upon-Avon  per  morirvi  qualche  anno  dopo,  nel  1616.
          Proprio  per  questo  essa  è  stata  ed  è  spesso  considerata  in  chiave
          autobiografica:  l’opera  di  un  artista,  e  di  un  uomo,  ormai  stanco,  forse
          esaurito, incline − dopo la strenua ricerca drammatica ed esistenziale delle
          grandi tragedie − a ripiegare in una visione rasserenata e insieme rassegnata

          della  vita  e  che  dunque  lancia,  attraverso  Prospero,  il  suo  messaggio  di
          rinuncia al teatro. Vedremo quanto di reale o di immaginario vi sia in tutto
          questo (ma non si dimentichi, intanto, che Shakespeare, nato nel 1564, morì

          a circa 50 anni). Ma certo dovremo subito dire che radicare l’opera (come gli
          altri  «drammi  romanzeschi»  che  egli  scrive  negli  ultimi  anni: Pericle,
          Cimbelino,  Il  racconto  d’inverno)  in  questa  psicologia  e  poetica  della
          vecchiaia,  della  rinuncia  o,  come  per  troppo  tempo  è  stato  fatto,
          dell’accettazione  religiosa,  significa  non  solo  precludersi  fin  dall’inizio  la

          comprensione  di  essa  ma  anche  chiuderla  in  una  gabbia  interpretativa  che
          l’opera non sopporta. Dovremo dire, al contrario, che proprio il fatto di venire
          dopo tante esperienze teatrali ed umane la rende così ricca e problematica,

          così densa e polivalente, da farla sfuggire ad ogni definizione che ne riduca lo
          spessore, ne attenui la suggestione, ne soffochi la voce.
          La favola apparentemente semplice e lineare del Duca spodestato di Milano,
          Prospero,  il  quale,  dopo  aver  vissuto  dodici  anni  in  un’isola  deserta  con  la
          figlia Miranda, il «selvaggio» Caliban e lo spirito Ariel, usa i suoi poteri magici

          per scatenare una tempesta, far espiare al Re di Napoli e al fratello Antonio
          le  loro  colpe,  riacquistare  il  Ducato  perduto  e,  dopo  aver  provocato  il
          matrimonio  della  figlia  con  Ferdinando,  figlio  del  Re  di  Napoli,  tornare  a

          Milano − questa favola è tanto carica di implicazioni e significati da costituire,
          invero,  uno  dei  testi  più  ardui  del corpus  shakespeariano.  Più  ardui  a
          rappresentarsi,  perché  v’è  in  esso,  come  negli  altri romances,  una
          drammaticità che non tende ad esprimere una contrapposizione di forze bensì
          a dar forma teatrale al movimento della vita − di qui il suo carattere spesso

          «narrativo»; il ritornare anche nella Tempesta di temi quali la rigenerazione,
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