Page 886 - Shakespeare - Vol. 4
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grande virtuoso poteva ottenere risultati del genere), ma è la materia di una
          riflessione sul teatro, sulla sua natura, sulle sue possibilità, e anche sui suoi
          limiti.  È  invero  una  ricerca,  quella  che  Shakespeare  compie,  e  che  gli  fa
          percorrere tutte le vie del teatro, e gli fa saggiare tutti i modi in cui il teatro

          −  e  non  solo  in  assoluto,  ma  il  teatro  suo,  e  dei  suoi  predecessori  e
          contemporanei  −  si  esprime,  si  realizza  (o  non  si  realizza).  Una  ricerca
          attenta, varia, puntuale, che non si limita a mostrare, sezionare, dissacrare,
          ironizzare sui vari generi ma lentamente porta ad una contrapposizione tra un

          teatro come illusione, spettacolo, evasione, e un teatro che sia il più possibile
          vicino  alla  realtà.  È  una  contrapposizione  che  appare  nettissima  in  alcuni
          luoghi dell’opera, non a caso soprattutto legati ai personaggi che sfuggono al
          «progetto»,  al  «copione»  di  Prospero  (e  cioè  Miranda,  la  violenza  e

          l’impetuosità del cui amore Prospero non sospettava, e Caliban, di cui non si
          aspettava la ribellione: e lui stesso, Prospero, quando sfugge a sua volta al
          proprio progetto, e passa dal «ruolo» di drammaturgo a quello, per così dire,
          di  personaggio).  E  si  veda,  ad  esempio,  la  conclusione  del masque  fatto

          mettere  in  scena  da  Prospero  per  celebrare  le  future  nozze  di  Miranda  e
          Ferdinando (nozze, peraltro, che egli paventa così come Giacomo I in qualche
          misura  paventava  quelle  della  figlia  Elisabetta  con  l’Elettore  Palatino,
          Federico).  Già  alcune  osservazioni  di  Ferdinando  e  dello  stesso  Prospero

          avevano sottolineato la qualità di «visione», l’irrealtà, di quella celebrazione,
          che  era  poi  la  evocazione  di  una  nuova  età  dell’oro.  Ma  poi,  mentre  sulla
          scena  si  svolge  una  danza  tra  Ninfe  e  mietitori,  Prospero  (come  dice  la
          didascalia  −  e  queste  didascalie  sono  tra  le  poche  che  sembra  di  poter

          attribuire a Shakespeare) «ha un improvviso sussulto e parla», dopo di che gli
          «spiriti» «con uno strano, cupo e confuso rumore, pesantemente svaniscono».
          La realtà incombe e Prospero esclama: «Avevo dimenticato la vile congiura /
          Del  bestiale  Caliban  e  dei  suoi  complici  /  Contro  la  mia  vita.  Il  momento

          finale del conflitto / È quasi arrivato. (Agli Spiriti.) Bravi! Ma ora via! Basta!»
          (Agli Spiriti.) Bravi! Ma ora via! Basta!» (IV, i, 139-42). Un brano come questo
          fa  sì  che  lo  spettatore  distingua  nettamente,  bruscamente  anche,  tra  due
          piani  di  azione  teatrale:  uno,  appunto,  artificioso;  l’altro  che  esprime

          sentimenti, passioni, situazioni reali. E non meraviglia, allora, che poco dopo
          Prospero pronunci le parole famose, e struggenti, di un discorso che rende
          questo processo, questa differenziazione, espliciti: «...Il nostro spettacolo è
          finito. / Questi nostri attori, / Come ti avevo detto, / Erano tutti spiriti / E si

          sono dissolti nell’aria, / Nell’aria sottile...» (IV, i, 148 sgg.).
          Da un lato, dunque, un teatro di «spiriti» (e c’è un sonetto, al riguardo), che
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