Page 892 - Shakespeare - Vol. 4
P. 892

teatrali  di  Shakespeare  −  rende,  come  quella  del Lear,  tutti  uguali,  tutti,
          anche  Prospero.  Ognuno,  e  tutti  costringe  a  spogliarsi,  sull’isola,  di  quanto
          non  sia  legato  alla  loro  povera  umanità  e  realtà.  E  se  esteriormente  tutto
          tornerà come prima, quando la nave salperà dall’isola, e ognuno riprenderà il

          proprio  ruolo  nella  società  e  nel  mondo,  tutto  sarà  diverso  perché  tutti  −
          appunto attraverso il cammino che si è descritto − avranno perduto qualcosa,
          le proprie illusioni, le proprie utopie, le proprie false certezze.
          Ma  in  questa  perdita  è  il  loro  guadagno,  la  loro  maturità.  Il  mondo  che  la

          Tempesta  −  al  di  là  dell’inquietudine  e  della  stessa  disperazione  che  la
          pervade − ci consegna, non è la «terra desolata» (anche se Eliot ad essa si
          ispirerà, e forse quest’isola è proprio il «waste land») e non è il mondo di
          Beckett. Questo non è un mondo che finisce ma è, semmai, un mondo che

          comincia. Apprendendo a riconoscere l’illusione, a rinunciare agli assoluti, ad
          accettare la propria finitudine e imperfezione, l’uomo ha appreso, sull’isola,
          che quel tanto di conoscenza, di verità che gli è dato, lo può raggiungere non
          attraverso una visione trascendente o precostituita del reale, ma attraverso

          un  rapporto  diretto.  La Tempesta è davvero un’opera baconiana, e non nel
          senso della mitica identificazione di Bacone e Shakespeare, e nemmeno nel
          senso di un influsso puntuale dell’uno sull’altro (ma non si dimentichi che lo
          Advancement  of  Learning  è  del  1605  e  che  inoltre  Bacone,  pur  nella  sua

          diffidenza per quelle «inezie», come le chiama, partecipò all’allestimento di
          un masque per lo stesso matrimonio cui la Tempesta è legata); ma nel senso
          che Shakespeare esprime nel teatro le stesse esigenze, le stesse tensioni che
          sostanziano la ricerca baconiana − e giustamente Ágnes Heller, nel suo libro

          s u L’uomo  del  Rinascimento,  fa  di  Machiavelli  e  Montaigne,  Bacone  e
          Shakespeare  i  «quattro  giganti  nei  quali  culmina  lo  sviluppo  del
          Rinascimento».  Forse  è  azzardato  vedere  nella  vicenda  di  Prospero,  come
          pure si potrebbe, non solo quella di un mago-scienziato come John Dee ma

          proprio quella di Bacone, e di quel suo passaggio dalla magia alla scienza così
          bene descritto da Paolo Rossi. Ma non è azzardato rilevare come gli «idola»
          che Bacone distrugge non siano diversi da quelli che crollano nell’isola; come
          l’esortazione  di  Bacone  a  non  appoggiarsi  al  retaggio  del  passato  sembri

          trovare forma teatrale nel «libro» che Prospero annega «più in fondo di come
          mai scandaglio si sia spinto»; e come, soprattutto, se la lezione che Bacone
          affida all’uomo moderno è quella non di una conoscenza assoluta e definitiva
          ma di un «metodo» per conoscere, quella della Tempesta sia anch’essa, nella

          forma  che  le  è  propria,  una  lezione  di  «metodo».  Questo  è  ciò  che  lo
          spettatore  soprattutto  ricava,  dopo  la  rappresentazione:  ed  è  qui,
   887   888   889   890   891   892   893   894   895   896   897