Page 893 - Shakespeare - Vol. 4
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naturalmente, che si realizza l’incontro tra la ricerca sul teatro e la ricerca sul
          reale,  tra  il  metateatro  e  il  teatro.  La  rinuncia  di  Prospero  è  la  rinuncia  a
          quelle «case dell’illusione dei sensi» di cui scriverà Bacone, nel 1626, nella
          Nuova Atlantide e «nelle quali otteniamo ogni sorta di fenomeni di prestigio,

          di false apparizioni, d’inganni, d’illusioni ed errori»: la rinuncia ad un teatro
          che sia «idolo» (e Bacone parla, come si sa, degli «idola theatri») a favore di
          un teatro che sia radicato nell’esperienza − che sia, anzi, esperienza. Ed è
          per questo che, a mio avviso, la Tempesta non è l’addio di Shakespeare al

          teatro ma, al contrario, il terreno di una nuova, e grande, proposta teatrale.
          La  proposta  di  un  teatro  che  non  sia  spettacolo  ma  esperienza,  non
          imitazione o riflesso o sospensione o fuga dalla vita ma vita esso stesso, e ciò
          non  certo  nel  senso  di  una  identificazione  naturalistica  (e  dunque

          illusionistica) tra vita e teatro, ma nel senso che lo spettatore − che ne è
          protagonista − riceva, attraverso l’azione teatrale, gli strumenti («strumenti
          umani», diremo col poeta Vittorio Sereni) del conoscere.
          E comprendiamo allora perché, per la prima volta nella sua carriera dopo La

          commedia degli equivoci, Shakespeare usi le unità − sempre rifiutate tranne
          che,  in  parte,  nell’Otello  (e  non  a  caso,  perché  tale  processo  era,  in
          quell’opera straordinaria, già in atto). E le usi, poi, in modo radicale, con più
          rigore  dello  stesso  Jonson  (ma  anche  su  questo  piano  i  due  amici  rivali

          s’incontrano),  così  che  non  soltanto  c’è  un  solo  luogo,  l’isola,  ma  il  tempo
          dell’azione  drammatica  coincide  con  quello  della  rappresentazione,  e  le  tre
          ore  dello  spettacolo  sono  quelle  −  come  Prospero  e  Ariel  esplicitamente
          dichiarano − che i personaggi impiegano per la loro avventura. Egli non le

          usa soltanto come «controllo» del suo materiale: né certo in ossequio, come
          ameranno credere i rifacitori settecenteschi, alle convenzioni classiche. Ma le
          usa appunto per realizzare un’opera in cui il luogo, l’isola, non finge la vita ma
          è la vita; il tempo teatrale non è mimesi del tempo reale ma è il tempo reale;

          l’azione  dei  personaggi,  un’azione  che  è  un  processo  conoscitivo,  non  è  lo
          spettacolo  che  lo  spettatore  contempla  ma  l’esperienza  conoscitiva  che  lo
          spettatore compie. Ciò che il drammaturgo stanco e svuotato di cui si diceva
          all’inizio ci lascia è un nuovo grande esperimento − il più audace forse che il

          teatro avesse compiuto e che ci vorranno secoli perché fosse compreso (da
          Brecht,  da  Pirandello).  Quello  di  una  forma  che,  mentre  prodigiosamente
          recupera  le  motivazioni  primarie  da  cui  il  teatro  è  nato,  è  tutt’uno  con  la
          realtà  dell’uomo  moderno,  postrinascimentale:  è  tutt’uno,  più  che  qualsiasi

          altra opera elisabettiana, con la nostra realtà, la nostra storia.
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