Page 599 - Shakespeare - Vol. 4
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motivi  (i  riti  della  vegetazione  e  la  leggenda  del  Graal),  la  fiaba  del The
          Winter’s Tale avrebbe forse fatto ancora meglio al caso suo. C’è in essa infatti
          il re malato e penitente, i cavalieri inviati all’oracolo, che si esprime in voce di
          tuono, la morte e la resurrezione delle stagioni e varie altre cose.

          Ma  chissà  che  invece  di  attribuire  a  Shakespeare  mancanza  d’ispirazione  e
          stanchezza,  non  si  debba  cercare  il  mutamento  nel  pubblico?  Dopotutto  i
          tempi  erano  cambiati  e  così  anche  il  gusto  di  chi  andava  a  teatro.  La
          commedia italianeggiante doveva aver fatto il suo tempo, come le cronache

          patriottiche  e  le  cupe  tragedie  di  sangue  e  vendetta  alla  Seneca.  Nei
          romances Shakespeare  stava  probabilmente  sperimentando  nuovi  temi,  un
          linguaggio diverso, un modo nuovo di far spettacolo. O forse anche un modo
          vecchio. Un ritorno al gotico e al fiabesco dei mystery plays, molto più vicino

          al  barocco  del  primo  seicento  che  al  rinascimento.  Come  nel  teatro
          medioevale,  nei romances non  c’è  rispetto  per  l’unità  di  tempo  e  luogo,  le
          scene  sono  una  successione  di  quadri  dettati  da  una  logica  interna,  i
          personaggi  rispondono  a  caratteristiche  folcloristiche  e  abbondano  danze,

          canzoni,  scherzi  e  discorsi  moralistici  spiccioli.  Fiabe  morali  o  «esemplari»,
          meglio  forse  che romances. Un  teatro  più  domestico  e  raccolto,  più
          «invernale», e più di gusto insulare di quello del giovane Shakespeare.
          The  Winter’s  Tale   è  scritto  in blank  verse (endecasillabi  sciolti)  con  molti

          brani in prosa. Il tempo-che-fa-il-coro si esprime in versi arcaicizzanti a rima
          baciata  e  fa  un  discorso  moralistico.  Per  il  moralismo  non  è  l’unico,
          naturalmente. I versi sciolti sono spesso interrotti e divisi tra due o anche tre
          personaggi. Di tutte le opere shakespeariane, questa è dove il fenomeno è

          più  frequente.  Il  dialogo,  ovviamente,  ne  acquista  in  rapidità  e  realismo.
          Realistici sono anche i discorsi sconnessi di re Leonte quando è in preda alla
          pazzia. Neppure re Polissene si esprime con chiarezza logica quando sente
          che la propria vita è in pericolo. Mentre il linguaggio di Leonte nell’ultimo atto

          è la prova più evidente del suo pentimento e ritorno alla ragione.
          Autolico,  che  è  il clown della commedia, anche se nel dramma è il figlio di
          Pastore  che  porta  questo  nome,  rivolge  i  suoi  commenti  direttamente  al
          pubblico,  come  appunto  il clown dei mystery  plays. Al  pubblico  si  rivolge

          anche re Leonte quando fa il suo discorso sulle corna, anch’esso discorso da
          teatro gotico con «umori» fissi, e altri esempi di coinvolgimento del pubblico
          nel  dialogo  e  azione  scenica  non  mancano  nel  quinto  atto.  Ci  troviamo  di
          fronte a un teatro con effetti da cabaret? Se le canzoni e le danze fossero

          distribuite sull’arco di tutta la commedia, invece d’essere concentrate nel IV
          Atto, si potrebbe già parlare di un musical.
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