Page 598 - Shakespeare - Vol. 4
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Shakespeare  scriveva The  Winter’s  Tale ,  il  re  di  Boemia  è  stato  anche  re
          d’Ungheria, e con il banato di Croazia aveva una costa. A mettermi su questa
          strada  è  stato  proprio  lo Zapolya  di  S.T.  Coleridge:  un  dramma-fiaba  con
          personaggi dai nomi ungheresi e una Temeswar come capitale di un «regno

          d’Illiria»,  che  è  convenzionale,  e  insieme  credibile,  per  i  lettori  del  1816
          quanto la Boemia e la Sicilia di Shakespeare. E ancora Coleridge è il critico-
          poeta che offre nelle sue Notes on the Tempest l’avvio più convincente per
          una  lettura  dell’ultimo  Shakespeare  e  perciò  di The  Winter’s  Tale ,  l’idea

          dell’«illusione intermedia», del dramma con trama fantastica cui si assiste né
          con distacco razionale, né con perfetta illusione realistica, ma come si assiste
          a un sogno in cui si vuole credere, pur consapevoli che non sia reale.
          Gli  ultimi  drammi  di  Shakespeare,  raccolti  dagli  studiosi  sotto  il  nome  di

          romances, presentano alcuni temi comuni che si potrebbero riassumere nello
          schema:  felicità,  rovina,  rigenerazione.  Così Pericles,  del  1608  o  1609,
          Cymbeline, del 1610, The Winter’s Tale   e The Tempest, del 1611, e anche,
          malgrado si tratti di un dramma storico, Henry VIII, del 1613. I temi trattati

          sono  la  perdita  e  il  ritrovamento,  la  riconciliazione  e  il  perdono,  la
          restaurazione  dell’onore  e  dell’innocenza  calunniata:  re  spodestati  vengono
          rimessi sul trono, amicizie e alleanze interrotte vengono rinnovate e tutti i
          personaggi  alla  fine,  i  cattivi  ravveduti,  insieme  alle  loro  ex-vittime,  si

          riconoscono più maturi e più ricchi d’introspezione e autostima. Fino al nostro
          secolo la critica era piuttosto divisa sulla valutazione di questi drammi. Per
          molti  si  trattava  di  opere  minori,  lavori  stanchi  di  un  impresario-autore
          vecchio  che  non  aveva  più  niente  da  dire,  una  coda  strascicata  sul

          palcoscenico dopo il tour de force delle grandi tragedie. Forse a influenzare
          questo  giudizio  c’era  ancora,  consciamente  o  inconsciamente,  la  riverenza
          pseudo-aristotelica  per  le  unità  di  tempo  e  d’azione  che  viceversa  nei
          romances è messa completamente da parte. Una delle caratteristiche comuni

          di  queste  opere  è  infatti  il  passaggio  degli  anni,  con  decadenza  e  crescita
          prima  della  rigenerazione,  e  l’azione  che  attraversa  mari  e  montagne  e  si
          sposta da un paese all’altro.
          Dal  giudizio  limitativo  si  salvava The  Tempest,  probabilmente  perché  la

          rovina e l’esilio del protagonista sono narrati anziché mostrati sulla scena e
          perché l’azione (rigenerazione, perdono, riconciliazione) si svolge tutta nello
          stesso  luogo.  Non  sfuggì  neppure  la  ricchezza  di  valori  simbolici  di The
          Tempest,  forse  fu  perfino  sopravvalutata.  T.S.  Eliot  ne  fece  uno  dei  motivi

          conduttori del suo Waste Land: prendendovi i simboli per la morte per acqua
          e il re pescatore, e non s’accorse che, almeno per quanto riguardava i suoi
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