Page 928 - Shakespeare - Vol. 3
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Tutto è bene quel che finisce bene, occorre dire; ma certo la giustizia poetica
          e le aspettative etiche risultano ampiamente violate, e quest’ultima parte del
          dramma «va per strade buie» (com’è detto del Duca), inscena contrattempi e
          contraccolpi, titillerà lo spettatore a teatro, ma lascia l’amaro in bocca. E se

          poi  Isabella  accettasse  davvero  la  proposta  di  matrimonio  (per  fortuna  sta
          zitta  e  non  dice  nulla),  la  rigorosa  e  tormentata  novizia  della  prima  parte
          subirebbe il più vieto dei lieti fini.
          Tutta  la  seconda  parte  del  dramma  è  una  sorta  di  enigma:  e  qualche

          possibile  delucidazione  va  tentata  fin  d’ora.  Esaurita  la  passionalità
          esasperata  della  prima  parte,  la  seconda  oscilla  fra  modi  drammatici
          discordanti e in parte contraddittori, quasi sovrapposti: l’andamento da teatro
          d’azione,  sensazionale,  melodrammatico,  e  un  certo  tono  ieratico,  solenne,

          sentenzioso,  oracolare.  Questo  fatto  può  suggerire  una  visione  e
          un’interpretazione  problematica  più  unitaria  del  dramma,  che  è  stata
          variamente tentata, ed è stata in auge fra gli anni Trenta e Cinquanta del
          nostro secolo.

          Sotto un certo aspetto il Duca − così privo di coinvolgimento personale ed
          emotivo  −  ha  il  ruolo  non  solo  del deus  ex  machina  o  del  regista-
          manipolatore,  ma  di  una  sorta  di  provvidenza  divina,  di  un  potere
          trascendente,  che  risolve  problemi,  dilemmi  e  contrasti  secondo  una  logica

          che non è di questo mondo, secondo una logica che riflette il potere divino
          del re (sommessa allusione alla concezione regale di Giacomo I?), o l’operato
          della  superiore  misericordia  cristiana.  «When  I  perceive  your  Grace,  like
          power divine» (V,  i,  366)  gli  dice  Angelo,  ed  è  l’ultima  di  varie  indicazioni,

          subliminari  oltre  che  esplicite:  la  sua  «grazia»  −  parola  che  compare  fin
          dall’inizio in I, ii − è quella divina o cristiana che redime il mondo, perdona i
          peccatori,  capace  di  trasformare  le  sofferenze  e  le  abiezioni  umane  in
          miracolose riconciliazioni. Non è solo mercé o clemenza di questo mondo, ma

          una sorta di provvidenza che trascende il mondo e la ragione, le categorie
          morali di bene e male, che sfida ogni logica umana e che tutto redime in una
          superiore armonia non di questo mondo.
          Il Duca usa mezzi dubbi ed equivoci per un fine maggiore e glorioso: non solo

          «Craft against vice» (III, ii, 258) ma «a physic / That’s bitter to sweet end»
          (IV, vi, 7-8), secondo uno stereotipo. È consapevole delle contraddizioni e dei
          paradossi del mondo: «Much upon this riddle runs the wisdom of this world»
          (III,  ii,  214),  e  mostra  di  volerne  spregiare  le  regole.  «Gentiluomo  ben

          temperato» (ivi, 222), come lo chiama Escalo, che si sforza di conoscere se
          stesso  (ivi,  217-218)  sul  piano  mondano  o  politico,  egli  opererebbe  la
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