Page 929 - Shakespeare - Vol. 3
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conciliazione  degli  opposti  e  dei  paradossi,  il  superamento  delle  categorie
          terrene,  alla  maniera  di  un  Dio  o  di  un  Cristo.  Le  sue  vie  sono  perciò
          imperscrutabili, misteriose, oscure: egli otterrebbe di trascendere il dilemma
          fra giustizia e clemenza, colpa e perdono, legge e umanità, Vecchio e Nuovo

          Testamento, col dono della Grazia che supera e annulla ogni dicotomia. Onde
          i  suoi  molteplici  perdoni,  che  non  solo  sventano  il  pericolo  sempre
          incombente della morte e della sofferenza, ma instaurano una remissione dei
          peccati (si ricordi V, i, 495) che fa entrare in una sfera quasi sovrumana o di

          fiaba.  Per  questo  è  stato  detto  del  dramma  (N.  Frye,  J.D.  Cox)  che  nella
          conclusione apre non solo la via ai modi e alle atmosfere dei romances, ma
          instaura una sorta di trascendenza su un materiale più di ogni altro ostico e
          greve. Questa interpretazione teleologica farebbe giustizia, più che poetica,

          religiosa,  a  livello  di  spettacolo  teatrale,  delle  varie  antinomie,  sanando  e
          rimarginando la rottura fra prima e seconda parte del dramma, permettendo
          di risolvere in una sorta di armonia “celeste” le sue scabrosità e di accettare
          quel che capita per mano del Duca a Isabella, a Angelo e agli altri, come una

          forma di redenzione calata dall’alto sulle debolezze umane.
          Siamo così entrati nelle duplicità e divisioni che investono la caratterizzazione
          dei  personaggi,  alla  quale  occorre  far  riferimento  per  ripristinare  la  forte
          carica problematica, in sé irrisolvibile, del dramma.

          Il  Duca,  innanzitutto:  più  volte  si  insiste  sul  carattere  “strano”  −  e  lo  è  −
          della sua assenza («The Duke is very strangely gone from hence», I, iv, 50),
          a cui ricorre due volte anche quando si traveste (IV, iii, 143 e V, i, 258). Le
          motivazioni  che  dà  non  sono  delle  più  nobili  (I,  iii,  35  sgg.:  ha  lasciato

          correre, e non vuol essere lui a stringere i freni; lo farà un altro per lui, e lui
          non ne avrà biasimo; metterà alla prova il Vicario, di cui poi però sappiamo
          conosce  i  trascorsi  non  proprio  limpidi, III,  i,  207  sgg.).  È  partito  in  fretta,
          lasciando in sospeso cose di gran conto; tiene tutti costantemente in sospeso

          su dove si trova (III, ii, 83-88), su cosa ha in mente di fare, sulle proprie vere
          intenzioni (I, iv, 54-55: «His giving out were of an infinite distance / From his
          true-meant  design»,  commenta  Lucio).  È  “vago”,  e  nelle  lettere  che  fa
          recapitare  inganna  di  proposito  (IV,  ii,  190-192:  «letters  of  strange  tenour,

          perchance of the Duke’s death, perchance entering into some monastery; but,
          by  chance,  nothing  of  what  is  writ»:  insomma,  non  è  quel  che  è).  In  più
          occasioni mente (III,  i,  161  sgg., III,  ii,  203-206, IV, iii, 112 sgg.), sia pure,
          come  ripete,  a  fin  di  bene  (III,  ii,  258, IV,  iii,  106-108  e  vi,  7-8),  e  nella

          seconda parte del dramma prevarica un po’ su tutti.
          È uno che tiene sempre “in serbo” qualcosa per il “dopo” e per il futuro, per
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