Page 931 - Shakespeare - Vol. 3
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e travolge noi stessi; nei quali l’essere e l’apparire acquistano diretta valenza
          drammatica.
          Angelo,  in  primo  luogo,  il  Vicario,  il  puritano  austero  e  rigoroso,  privo  di
          appetiti, il cui sangue non scorre nelle vene (I, iii, 49-53) o è neve acquosa (I,

          iv,  57-58),  figliato  da  una  sirena  o  due  stoccafissi,  che  piscia  ghiaccio
          congelato (III, ii, 101-105), «ungenerative», senza genitali (III, ii, 162-163),
          come  infierisce  Lucio,  “duplice”  nell’esercizio  della  giustizia  (spietato  con
          Claudio,  solo  infastidito  dai  malfattori  di  strada),  che  però  deve  arrendersi

          all’evidenza che le sue pulsioni sono come quelle degli altri, o peggio degli
          altri perché tenute a freno, sconvolgenti quando si trovano in tentazione e si
          scatenano:  diviso  cioè  fra  essere  vero  e  apparire  di  facciata,  fra  falso
          sembiante e realtà profonda. Allora si scopre di due anime («Where prayers

          cross», II,  ii,  160),  pensa  e  prega  «To  several  subjects»  ( II,  iv,  1  sgg.),  è
          sgomento  (II,  iv,  20-24),  e  anche  dopo  la  (presunta)  consumazione  del
          misfatto con Isabella si ritrova scombinato («This deed unshapes me quite;
          makes  me  unpregnant  /  And  dull  to  all  proceedings», IV,  iv,  18-19),  diviso

          nella  volizione  («we  would,  and  we  would  not»,  ivi,  32).  Tanto  più  che  il
          “santo” deve arrendersi al paradosso che la più forte tentazione viene dalla
          “santità”  di  Isabella  (II,  ii,  180-184),  perché  il  vizio  è  attratto  dalla  virtù.
          L’austerità,  il  digiuno,  l’astinenza,  non  possono  frenare  il  sangue  («Blood,

          thou art blood», II, iv, 15). Angelo scopre in sé non solo la passione sessuale
          esteriormente aborrita, ma più di un tocco di sadismo: la volontà di rendere
          Isabella complice dei suoi desideri, e l’accanimento verso Claudio ne sono per
          così  dire  l’estensione.  A  “redimerlo”,  se  così  si  può  dire,  dalla  crudeltà  e

          dall’ipocrisia mantenute fino alla fine, non è tanto l’incongrua “remissione” del
          Duca,  quanto  la  sua  immediata  richiesta  della  punizione  una  volta
          smascherato  (V,  i,  369-371  e  473-474:  «I  crave  death  more  willingly  than
          mercy; / ’Tis my deserving, and I do entreat it»).

          D’altro  canto,  stranamente  divisa  appare  anche  Isabella.  Tutta  d’un  pezzo,
          assetata d’assoluto, vogliosa di maggior «restraint» anche in convento, donna
          angelicata (anzi, quasi con citazione dantesca, che s’inciela: «a thing enskied
          and sainted», I, iv, 34), fin troppo fredda e ascetica, più di ogni cosa aborre e

          vorrebbe punita la «polluzione» sessuale (II, ii, 29-30), ma si ritrova anche lei
          «At war ’twixt will and will not» (ivi, 33), e soprattutto scopre che in lei si
          annida il potere di eccitare, sviare, forse corrompere. Alla fine ci sarà come
          una  sorta  di  parziale  ammissione  di  complicità:  «I  partly  think  /  A  due

          sincerity govern’d his deeds / Till he did look on me» (dice di Angelo, V, i,
          442-444), che può sorprendere fino a un certo punto.
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