Page 935 - Shakespeare - Vol. 3
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rappresenta l’importanza che ha comunque la volontà di vita, il valore di ogni
          persona umana, anche la più abbietta: il mondo della prigione è del resto una
          scuola di vita, un secondo sfondo e contraltare ironico-grottesco alle vicende
          dei grandi.

          Dove vieppiù risalta il carattere duplice e diviso del dramma è nel linguaggio,
          che racchiude ed esprime le tensioni latenti e nascoste dei personaggi e della
          trama.
          Da  un  lato,  il  linguaggio  di Measure for Measure  −  così  rotto  ed  esagitato

          anche sul piano formale e della versificazione − oscilla fra l’aperta scurrilità
          dei  mestieranti  del  sesso  e  le  involuzioni  di  pensiero,  d’animo,  e  di
          atteggiamento  dei  protagonisti,  fra  una  carica  di  sensualità  ed  evidenti
          sovrattoni biblici. Fin dal titolo, e fino all’Atto V, dove il richiamo a Matteo, vii,

          2 («With what measure ye mete, it shall be measured to you again»), viene
          esplicitato, riferimenti biblici percorrono buona parte dei discorsi “altolocati”,
          ma  anche  quelli  dei  reprobi:  ci  si  riferisce  alla  parabola  dei  talenti  e  al
          Sermone  della  Montagna,  a  passi  del  Genesi  e  del  Levitico,  ai  vangeli  di

          Matteo  e  Luca.  Per  tutto  il  dramma,  quand’è  travestito,  il  Duca  assume
          linguaggio  da  religioso,  e  alla  fine  dell’Atto V  si  comporta,  anche
          linguisticamente,  da  provvidenza  divina.  Di  contro,  la  greve  sensualità  e
          oscenità  dei  discorsi  dei  bassifondi  sembra  pervasa  da  immagini  di

          disfacimento  e  malattia  (valgano  per  tutti  i  due  richiami  alla  cura
          elisabettiana  per  la  sifilide  negli sweating  tubs,  I,  ii,  81  e III,  ii,  54),  che
          gettano la loro ombra sinistra anche sul resto.
          D’altro canto, non solo i personaggi parlano, com’è giusto, linguaggi diversi,

          ma ciascuno parla una lingua in cui non sempre si riconosce o, da spettatori e
          lettori, lo riconosciamo.
          Il Duca sfoggia, fin dall’inizio, un linguaggio arzigogolato, artificioso, involuto,
          forzato: a volte non è affatto chiaro quel che dice o vuol dire, oscilla fra toni

          burocratico-amministrativi e sentenziosità spicciola, fra l’ipotetico e i luoghi
          comuni. Nei suoi vari travestimenti, è il persuasore occulto, sciorina omilie di
          maniera  sulla  morte  (III,  i,  5-41),  fa  il  consolatore  d’ufficio;  poi,  come
          mastermind dell’intrigo che porti a soluzione la vicenda, il suo linguaggio si fa

          sentenzioso, ma anche sibillino ed enigmatico, saputo, pieno di sospensioni,
          rinvii, cautele, soprattutto di cose non dette, taciute, volutamente confuse o
          nascoste. Insomma, anche nel linguaggio che usa il Duca (lo si è già visto) va
          per vie buie e nascoste, al limite subdole, tortuose, segnate da una sorta di

          deviousness.  Il  suo  linguaggio  è  spesso  opaco,  contraffatto,  contorto,
          costruito, erratico; scherza con Lucio, e in parte ne provoca le calunnie; fino
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