Page 936 - Shakespeare - Vol. 3
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in fondo tiene tutti col fiato sospeso, in virtù di un linguaggio che nasconde,
più che dire. Come Angelo e Isabella, del resto, non è alieno da doppi sensi e
giochi di parole, che nel suo caso sembrano celare più che rivelare; il suo
discorso è ricco di indovinelli, allusioni, pretesti. C’è chi l’ha spiegato come
traccia di una possibile polemica anticattolica (i suoi procedimenti e discorsi
da frate sono tutt’altro che specchiati: arriva persino a dire quel che avrebbe
sentito in confessione, III, i, 164-165), ma in realtà il suo è un linguaggio che
rispecchia la sua contraddittoria e un po’ speciosa natura.
Né lui, né Angelo (almeno all’inizio) ci coinvolgono emotivamente; semmai
respingono. Quello di Angelo è un linguaggio freddo, oleoso, ossequioso, di
corte, un po’ falso, che riflette la sua natura di puritano, ma anche la
posizione un po’ ambigua in cui viene messo dal Duca; quando discetta
sull’autorità e la legge, ha toni legalistici e scolastici. Il suo linguaggio si fa
però duro e spietato quando esercita il potere, mentre si accende,
verbalmente ed emotivamente, quando è “sorpreso dal peccato” e scopre le
contraddizioni della propria natura, le insospettate pulsioni distruttive che lo
animano, il suo non essere quel che credeva di essere:
From thee: even from thy virtue!
What’s this? What’s this? Is this her fault, or mine?
The tempter, or the tempted, who sins most, ha?
(II, ii, 162-164)
A sconfiggerlo, e a incrinare il suo linguaggio di facciata, è la considerazione
che il suo presunto “assoluto” − la virtù − è l’elemento più subdolo e forte
della tentazione. Perciò umanamente si scombina, riconoscendo la
divaricazione dei pensieri dalle parole (II, iv, 1-17). Prima aveva detto «for I
can speak / Against the thing I say» (II, iv, 59-60): con Isabella adopera
infatti una sorta di linguaggio da leguleio, basato sull’ipotesi, l’ipotetico, e
l’equivoco (ivi, 88-98): un linguaggio che è esso stesso false seeming, falso-
sembiante, farisaico, sviante. Quando passa al linguaggio diretto
dell’aggressione (ivi, 132 sgg.: «let me be bold»), dall’estremo del freddo
calcolo alla furia (158 sgg.), scivola nel protervo e nel bombastico (come poi
in IV, iv, 24-25: «For my authority bears so credent bulk...»), a testimonianza
che anche il suo linguaggio è lo specchio di una prepotenza esteriore e di una
confusione interiore. Il suo soliloquio in IV, iv termina col già ricordato «we
would, and we would not», che è anche la cifra linguistica di una duplicità che
si scombina. Le sue parole, nell’Atto V, ripercorrono l’oscillazione fra protervia
(con Isabella) e ipocrisia (con Mariana), e il passaggio ad una schiettezza