Page 938 - Shakespeare - Vol. 3
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contro alla corruzione celata, inconfessata ambigua o latente, dei “grandi”. La
          seconda  è  quella  di  fornire,  come  spesso  in  Shakespeare,  un  controcanto
          ironico,  grottesco,  su  toni  bassi,  ai  discorsi  dei  grandi  (così  in  vari  punti  i
          discorsi  di  Lucio  su  Angelo  e  il  Duca,  ma  anche  su  Claudio  e  Giulietta):  e

          infatti, anche a questo infimo livello, si hanno insistiti giochi di parole, doppi
          sensi equivoci, fraintendimenti, misplacements e misapprehensions, che sono
          come l’altra faccia, demotica, carnascialesca, e forse non meno devastante, di
          un modo di esprimersi che sembra costantemente compromettere o falsare la

          propria  verità.  Quando  subito  in II,  i,  si  equivoca  su benefactors  e
          malefactors, detest  e respect (ma anche su cardinale e carnale, Annibale e
          cannibale, e via dicendo), capiamo che è un commento comico-grottesco alla
          mancanza di plain dealing dei potenti, e un suo riflesso.

          La corruzione tramite il linguaggio è impersonata, ad un livello intermedio fra
          i due mondi, da Lucio, che non solo parla e sparla in continuazione, ma si
          rende colpevole del peccato imperdonabile che è la calunnia (cfr.  III, ii, 173-
          176  e V,  i,  520),  l’offendere  con  la  parola  (piuttosto  che  con  i  fatti),  ed  è

          perciò  emblematicamente  l’unico  a  pagare.  Ho  accennato  al  perché  storico
          della  condanna:  ma  la  ragione  drammatica  è  forse  più  profonda.  Lucio  è
          l’unico a blaterare a vanvera e a perdifiato fino alle ultime battute dell’Atto V,
          quando,  com’è  stato  fatto  notare  da  svariati  critici,  domina  una  sorta  di

          sinistro  silenzio  da  parte  dei  comprimari.  Ci  sono  fin  troppi  silenzi,  alla
          conclusione,  tutti  zitti  o  zittiti  di  fronte  al  Duca  non  più  assente,  come  se
          avessero  perso  ogni  voglia  di  parlare:  è  un  ammutolimento  collettivo.
          Ebbene, a livello profondo, si può suggerire questa spiegazione. Se è vero che

          nel dramma la corruzione investe o falsa il linguaggio di quasi tutti, e se è
          vero  che  il  Duca  alla  fine  ristabilisce  una  sorta  di  più  alta,  trascendente
          giustizia  che  non  è  di  questo  mondo,  in  cui  a  prevalere  sono  componenti
          quasi  religiose,  in  quel  clima  “puro”  e  metafisico  che  supera  la  ragione,  il

          modo più idoneo è la scelta del silenzio, la rinuncia a parlare, al linguaggio:
          poiché  il  linguaggio,  in  questo  dramma,  è  fonte  o  sentina  di  corruzione,
          pericolosamente  prono  alla  duplicità,  carico  di  contraffazioni  e  valenze
          negative, la “sanatoria” finale coinvolge anche il suo esercizio. Dopo quanto è

          successo, o sta succedendo, si può solo ammutolire. Perciò l’unico a pagare è
          Lucio, che non si risolve a tacere.
          Quanto all’imagery, se si tralascia quella biblica, e quella salvifica del Duca
          nell’Atto V, un suo aspetto ricorrente conferma quanto appena esposto. Per

          tutto il dramma − ma con più insistenza nella prima parte − viene evocata
          l’immagine dello stampo che forma il carattere (etimologicamente, carattere
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