Page 921 - Shakespeare - Vol. 3
P. 921

manifestati fin lì, assumono movenze e atteggiamenti passivi, da marionette
          nelle mani del Duca, si lasciano indirizzare, guidare e manipolare da lui, quasi
          avessero perso ogni autonomia di decisione.
          L’intervento  protratto,  insistito,  di  questo deus  ex  machina  che  complica  a

          dismisura  le  vicende  esteriori  senza  approfondirne  la  valenza,  trasforma  il
          dramma teso, massimamente problematico della prima parte in melodramma
          (e  metadramma,  nell’Atto V),  dissolve  le  sue  implicazioni  drammatiche  e
          financo  tragiche  in  commedia  al  limite  della  farsa.  L’intreccio  si  fa  intrigo

          tragicomico,  in  sé  e  come  definizione  di  genere;  sentimenti,  risentimenti  e
          valori  sembrano  scombinarsi,  ciò  che  prima  era  orribile  e  incontenibile  si
          stempera  come  in  un  gioco  di  marionette  tenute  in  pugno  (e  fatte
          ulteriormente  e  gratuitamente  soffrire)  dal  Duca  come  manager  o  regista

          teatrale che ha più di qualche tratto del giocoliere, del mago o del trickster e
          dell’impiccione, riducendo a schermaglie di cui lui muove le fila il precedente
          confronto di irriducibili posizioni.
          Nella prima parte si ha una serie di forti contrapposizioni drammatiche, che

          sono  anche  confronti  ideologici,  fra  il  rigore  della  legge  astratta  e  punitiva
          impersonata da Angelo e le ragioni della vita e dell’amore rappresentate da
          Claudio e Giulietta (quindi della mercé o clemenza); fra l’autorità e l’esercizio
          del potere, che acquista aspetti di corruzione “interna”, implicita o potenziale,

          e la sessualità − sia quella feconda di Claudio e Giulietta, sia quella sordida,
          prezzolata, dei sobborghi di Vienna (specchio naturalmente della Londra del
          tempo),  con  la  sua  radicale  opposizione  all’ordine.  La  rigidità  del  potere  −
          specie se come in questo caso “deputato”, esercitato da un vicario, e cioè

          temporaneo, posticcio, non ben chiaro nei suoi limiti e prospettive (I, i, 79-
          81)  −  si  scontra  con  l’effervescenza  di  vita,  “alta”  e  “bassa”,  e  si  riflette
          nell’astinenza congenita ed esasperata di cui Angelo si pretende portatore, e
          in  quella  impostasi  da  Isabella,  la  novizia  il  cui  orrore  della  sessualità  la

          predispone egualmente ad amare sorprese.
          Sono i due campioni del rigore e del restraint (parola chiave nel dramma), di
          contro alla libertà o “licenza” di Claudio − scope è la parola che meglio indica
          la contrapposizione − e alla “licenziosità” di Lucio, Pompeo Chiappe, lenoni e

          mezzane  che  popolano  il  sottobosco  di  Vienna,  fin  troppo  presenti  e
          vociferanti nell’economia del dramma. Il primo, fortissimo incontro/scontro è
          fra queste due istanze: qui come altrove, la grandezza di Shakespeare sta nel
          rendere  lo  scontro  non  solo  interiore,  in  Angelo  come  in  Isabella,  ma  fra

          personaggi  oppositivi  che  riveleranno  strane  somiglianze.  Il  secondo
          incontro/scontro  è  fra  questi  due,  con  la  progressiva  resa  di  Angelo  alle
   916   917   918   919   920   921   922   923   924   925   926