Page 384 - Shakespeare - Vol. 3
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fusione mirabile, linguistica e visiva, di toni tragici, comici ed elegiaci, che sono anche strati diversi
                 della realtà mostrata: il quotidiano dei becchini-contadini dove l’arguzia è compensazione necessaria
                 e aggressiva della miseria, e si ride della morte stessa con effetto liberatorio, ma la risata si associa
                 al  ghigno  del  teschio,  lo  sfarzo  della  corte  inserito  nel  simbolismo  dell’incontro  con  la  morte  come
                 negli  affreschi  famosi  dell’Orcagna,  l’alternarsi  di  saggezza  e  follia  nei  protagonisti  così  vitali  e
                 incoscienti della propria maturazione tragica, la dolce e straziante elegia del motivo di Ofelia. Il tutto,
                 vivo  e  intenso,  è  una  sintesi  della  drammaturgia  elisabettiana,  e  anche  una  sintesi  simbolica  del
                 destino umano − Goethe ne mutuò toni e motivi per la scena della sepoltura nel secondo Faust.

              55 V, i, 217. Con una trascurabile incongruenza, Amleto spiega a Orazio chi è Laerte. Ma può anche
                 essere una riflessione allucinata.

              56 V,  i,  247  sgg.  La  crisi  di  Amleto  va  saggiamente  guardata  come  insieme  finzione  e  vera  follia,
                 autodrammatizzazione e sincero attacco alla retorica di Laerte, dolore e istrionica reazione a esso e
                 scatto di euforia seguito subito da gentile acquetamento, come dice la madre.
              57 V, ii. Scadono le ultime ventiquattrore accordate dal destino, e questa posizione finale dà alla scena
                 una tensione che contrasta col suo avvio quieto e anche giocoso. L’ora della verità coglie Amleto in
                 una fase di calma, di assenza di sospetti e persino di minor rancore − accetta di combattere «per il
                 re» e difendere la sua scommessa − e in qualche modo di acquietamento stoico-cristiano (ispirato
                 dal  modello  del  «romano»  Orazio  e  dalle  vicende  personali  in  cui  gli  par  di  vedere  la  mano  della
                 provvidenza). Ma questo acquietamento non implica un risveglio all’attività e all’intraprendenza, anzi
                 più  che  mai  in  questi  ultimi  episodi  prima  del  duello  Amleto  non  fa  niente,  perde  tempo  nei  soliti
                 scontri  ironici  coi  cortigiani,  si  fa  trascinare  dagli  eventi  di  cui  è  assolutamente  in  balia,  mentre  la
                 vanità e l’onore lo fanno cadere facilmente nella trappola tesagli dal re e da Laerte. Del tutto passivo
                 è il suo concetto della «readiness», al punto da far pensare che egli si sia costruito quell’ideale stoico
                 per  giustificare  la  sua  inefficienza  di  uomo,  sino  alla  fine,  «senza  qualità».  Difficile  vedere  in  lui,
                 dunque,  quella  positivizzazione  o  «redenzione»  finale  che  vi  vedono  i  critici,  anche  quelli  che  di
                 Amleto sono più critici. Amleto ha condannato senza batter ciglio Rosencrantz e Guildenstern con
                 una crudeltà non inevitabile, e poi ne attribuisce la morte alla provvidenza. E un uomo che in questa
                 scena finale pecca di vanità, di hybris, di falsità, e che fino all’ultimo non si preoccupa, malgrado il
                 suo disprezzo per la propria vita, che di se stesso, del proprio onore e del proprio nome. È infatti un
                 uomo  incapace  di  prevedere  il  volgere  degli  eventi,  e  che  da  essi  è  travolto.  L’ambiguità,  la
                 precarietà  dominano  la  scena  prima  e  dopo  la  catastrofe,  per  esempio  nel  tentativo  di  Orazio,
                 perplesso  e  sconvolto,  di  spiegare  a  Fortebraccio  la  tragedia  in  una  battuta  in  cui  non  fa  che
                 ripeterne  l’intreccio,  o  in  quella  cerimonia  finale  in  cui,  secondo  Shaw  (cit.  da  Jenkins)  «l’astuto
                 William» aveva trovato una degna fine, ironica e diabolica, per la sua tragedia.
              58 V, ii, 10-11. Jenkins fa notare come questa provvidenza sia insieme biblica e montaignesca.

              59 V, ii, 80. Enter Osric. Invenzione di grande ironia, fare di un «foppish courtier», un «uomo-libellula»,
                 il  messaggero  della  morte.  Sui  dettagli  tecnici  della  sfida  e  del  duello  c’è  una  piccola  bibliografia
                 discordante.

              60 V,  ii,  208  sgg.  Amleto  respinge  il  presentimento  da  buon  eroe  tragico,  e  rifiuta  ogni  possibilità  di
                 tirarsi  indietro  di  fronte  al  richiamo  del  fato.  Il  suo  «essere  pronti  è  tutto»  più  che  indicare  una
                 maturazione  morale,  come  la  «ripeness»  del King  Lear,  è  l’accettazione  di  un  codice  di
                 comportamento,  ed  è  affine  al  concetto  greco  di  tlemosyne,  rispondere  con  fortezza  al  richiamo
                 della  Moira  (Cfr.  W.C.  Greene,  Moira;  Fate,  Good  and  Evil  in  Greek  Thought,  New  York  1942).
                 Amleto ha di nuovo accanto il suo Montaigne (I, 19). Egli ha assunto una maschera stoico-cristiana,
                 ma  questo  è  un  mutamento  interno  al  suo  sottomondo,  non  come  crede  lo  Haydn  il  messaggio
                 dell’opera. Deciso, indeciso, illuso, propenso al rinvio e alla delega, Amleto è se stesso sino alla fine,
                 che non è la fine eroica e strappalacrime delle messinscene tradizionali, ma una fine ironica.
              61 V, ii, 352 e 363. All’amore amletico per il prestigio e al suo spirito aristocratico dobbiamo i versi più
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