Page 389 - Shakespeare - Vol. 3
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calato il sipario.
          È questa, mi sembra, la chiave di lettura più consona a un testo molto più
          complesso e ricco di sfumature di quanto venga generalmente ritenuto anche
          da  critici  indiscutibilmente  acuti.  Certo,  se  letta  nel  contesto  delle  grandi

          tragedie che seguiranno, Twelfth Night non può non indurre al sorriso, ma è
          un  sorriso  che  si  spegne  sulle  labbra  una  volta  per  tutte,  a  dispetto  degli
          ultimi tre versi necessariamente ottimistici, ascoltando l’ultima canzone del
          Buffone, una canzone che in realtà è un dirge, un canto funebre. Il sogno è

          finito, e l’uomo deve tornare a fare i conti con la bufera della realtà.
          Ecco perché, a eccezione di Viola, l’autentica protagonista della commedia, e
          di  Antonio,  il  vero  gigante  (anche  se  per  certi  versi  «tipico»),  il  più  che
          probabile  portavoce  del  pensiero  di  Shakespeare  è  proprio  il  Buffone,

          indipendentemente dal fatto che il commediografo abbia tagliato la sua parte
          sui panni, invero superbi, almeno a quel che ci dicono i critici dell’epoca, di
          Robert Armin, il fool più straordinario del teatro elisabettiano.
          Quando  Shakespeare  ne  creerà  uno  nuovo,  quello  di King  Lear,  lo  spedirà

          decisamente incontro alla pioggia vera, alla tempesta autentica, ben diversa
          da quella solo evocata sotto le volte sicure di una sala da teatro. Anche il
          Buffone  di Twelfth  Night si  arroga  però  il  diritto  di  mettere  a  nudo  le
          debolezze dei protagonisti. Memorabile, da questo punto di vista, la battuta

          sferzante che riserva a Orsino quando il duca gli offre freddamente del danaro
          per  ricompensarlo  di  una  sua  performance  canora.  Feste  il  Buffone  gli
          risponderà no pains, I take pleasure in singing, sottolineando così il diritto a
          far le cose per piacere e non perché si aspetti una ricompensa.

          Sugli  altri  personaggi,  con  le  eccezioni  di  cui  sopra,  mi  riesce  difficile
          dissentire dall’idea di Mario Praz secondo cui si ha a che fare con dei «tipi fissi
          ravvivati dalla maestria di Shakespeare». Il duca Orsino è fondamentalmente
          innamorato  dell’idea  dell’amore,  è  romantico  fino  a  risultare  sdolcinato,

          incapace di prendere personalmente l’iniziativa per guadagnarsi la felicità se
          non,  guarda  caso,  quando  è  ormai  troppo  tardi.  Da  buon  duca,  si  sarebbe
          portati  a  pensare,  è  capace  di  amare,  o  quanto  meno  di  confessare  il  suo
          amore, solo per procura. Che dire poi di Olivia, presentata come un caposaldo

          di virtù familiare, «come scoglio» (direbbe la Fiordiligi mozartiana) capace di
          opporsi strenuamente a ogni tentazione amorosa pur di onorare la memoria
          del  padre  e  del  fratello  e  invece  conquistata,  si  direbbe,  prima  ancora  di
          averlo  visto,  vista  l’aria  trepidante  con  cui  lo  riceve,  da  Viola  nei  panni  di

          Cesario.
          È invece proprio Viola a ergersi a grande protagonista, con la sua capacità di
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