Page 390 - Shakespeare - Vol. 3
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«cogliere l’occasione», di lasciarsi andare senza timori al caso e alla fortuna,
          d’affidarsi totalmente al fattore tempo, senza mai abbandonarsi sull’alea di
          un’attesa  che,  a  differenza  di  quanto  sostenuto  da  Maurice  Blanchot,  se
          protratta,  non  può  che  sfociare  nell’oblio.  È  Viola  che,  vestita  di  panni

          maschili, fa suo l’ottimismo, così tipico delle caratteristiche psicologiche del
          sesso forte, che scaturisce nelle azioni indispensabili a modificare la realtà.
          Un ottimismo che si palesa fin dalle prime battute quando Viola s’interroga
          sulla possibilità che il fratello sia, come lei, scampato al naufragio, in qualche

          modo convinta che la sorte dei gemelli, come del resto accade spesso nella
          realtà, sia indissolubilmente legata, nel bene e nel male. Eppure, malgrado
          questi  elementi  «mascolini»,  intorno  a  Viola  si  crea  un’atmosfera  sempre
          caratterizzata da una «presenza» costante; da una soavità, questa sì, tutta

          femminile, capace di sedurre senza colpo ferire tutti coloro che abbiano a che
          vedere con lei. Quanto ai personaggi di contorno, penso ai vari Sir Toby e Sir
          Andrew, direi che siano funzionali non solo allo sviluppo dell’azione scenica
          nella  sua  parte  più  «facilmente»  farsesca  bensì  che  vengano  utilizzati  dal

          commediografo  come  uno  specchio  in  cui  lo  spettatore  può  veder  riflessi  i
          suoi  stessi  difetti,  le  sue  stesse  debolezze.  Difetti  e  debolezze  di  cui,
          paradossalmente, sembra esente solo quel «puritano» di Malvolio che però
          viene atrocemente beffato sulla base della sua arroganza, della sua sicumera,

          un’arroganza e una sicumera che nascono appunto dalla sua «ideologia», cioè
          a  dire  dalla  sua  incapacità  di  affrontare  con  la  flessibilità  tipica
          dell’intelligenza i mutevoli aspetti del reale.
          Ma al di là e al di sopra di questi numerosi personaggi/puppet, non si può non

          restar  ammirati  di  fronte  alla  straordinaria  maestria  con  cui  Shakespeare
          altera  e/o  intreccia  le  situazioni,  specie,  sempre  per  dirla  col  Praz,  nel
          secondo atto, con un tempismo che ha del miracoloso.
          Quanto alla critica si è, come sempre con Shakespeare, sbizzarrita anche con

          questa commedia e, come sempre, ha sposato, del resto inevitabilmente, lo
          spirito del tempo. Nel passato ormai remoto si segnalano alcune osservazioni
          del Dr. Johnson che parla di una commedia che spicca per l’«eleganza», per
          l’«umorismo squisito» ma che non manca di sottolinearne la «mancanza di

          credibilità»  e,  per  conseguenza,  di  «serietà».  Facendo  un  balzo  avanti,
          arriviamo al ventesimo secolo quando, nella scala dei valori di Twelfth Night,
          forse  per  ricordare  l’esistenza  di  una  «età  dell’ansia»  perenne,  è  salito
          progressivamente alla ribalta il personaggio di Feste il Buffone a cui un critico

          insigne, A.C. Bradley, ha dedicato un intero saggio mentre Middleton-Murry lo
          ha  paragonato  al  servo  Firs  del Giardino  dei  ciliegi di  Čechov.  Ancora  più
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