Page 381 - Shakespeare - Vol. 3
P. 381
25 II, ii, 249-50. Questo pensiero montaignesco suggerisce anche il relativismo dei sottomondi tragici.
26 II, ii, 295-310. Il passo famoso rovescia il topos rinascimentale della grandezza dell’uomo in una
riflessione medievale sull’uomo come polvere.
27 II, ii, 330 sgg. Frattura della cornice drammatica e irruzione della realtà contemporanea. La
referenza esterna, tipica del «dramma storico», è qui usata anacronisticamente. Ma la violazione è
reimmessa attraverso il tema (il teatro) nel contesto unitario dell’opera.
28 II, ii, 331. «the late innovation». Dover Wilson e Jenkins danno alla parola «innovation» il senso di
«political disturbance», con riferimento alla congiura di Essex. A me pare, più semplicemente, che
Rosencrantz introduca qui il tema della nuova moda dei ragazzi-attori.
29 II, ii, 446-514. Récit di Pirro. Come l’impresa di Fortebraccio, è anzitutto una delle «occasioni» che
denunciano la tergiversazione di Amleto. Ma si è notato che la narrativa, di origine virgiliana (ma non
si sa se e da dove derivi nella sua forma esasperata, quasi grottesca e parodistica), tratta di un
figlio insieme vendicatore e assassino, che ambiguamente richiama la situazione di Amleto. Il suo
stile iperbolico, tipico del dramma popolare, accentua il paradosso della parteci pazione passionale
dell’attore, e questa capacità della mimesi di suscitare le passioni, che è il vecchio concetto
platonico, stimola Amleto a utilizzare la mimesi come «trappola per catturare la coscienza del re»
(II, ii, 600-601). Questo forse basta a giustificare l’immissione del récit nella mistura stilistica della
tragedia.
30 III, i, 56-90. Il famosissimo terzo soliloquio di Amleto condivide, ma più pacatamente, col primo
soliloquio − e col sonetto 66, «Tired with all these for restfull death I cry» − il motivo del suicidio.
Jenkins ne esclude le preoccupazioni personali e ne fa il dibattito su un problema generale. Ma il
soliloquio è pur sempre discorso della passione di Amleto, meditazione che torna, dall’inizio alla fine
dell’opera, sull’attrazione della pace finale, sulla tentazione di un suicidio ben lontano dall’idea classica
del suicidio eroico. Quanto il discorso sia appassionato è detto, del resto, dallo stesso significante,
dalla cadenza di «To die − to sleep / No more... To die, to sleep...» la cui musica è desiderio e
assaporamento di morte. Ma il passo resta un luogo classico dell’ambiguità, in cui le parole semplici
vengono da una coscienza che non lo è affatto e portano alla luce le sue intuizioni, il suo livello
cosciente, e molto che resta al di sotto, e poi acquistano significati dalla posizione centrale nell’opera,
dalle risonanze che destano in tutto il suo spazio, e dal loro essere discorso-azione in un dramma.
Sul piano letterale, la domanda iniziale apre una riflessione tipicamente amletica sull’onore (se è più
nobile essere o non essere) che altrettanto tipicamente si rovescia in una riflessione sulla codardia
umana, sul terrore dell’Ade che è il disonore di aggrapparsi all’orrida vita, al desiderio funesto di
vivere («tam dira cupido»), e poi sulla codardia del pensiero e della coscienza che bloccano l’azione
realizzatrice. Ma la domanda iniziale suona pur sempre come una domanda sull’essere, e ciò apre
quella dimensione metafisica alla quale i critici inglesi sono molto avversi. Ciononostante, diremo in
breve che l’autenticità è la vera quest di Amleto, e questo soliloquio è anche una cupa meditazione
sul destino tragico dell’uomo preso tra essere e non essere. È stato notato che la imagery della vita
è passiva e spenta, piena di sofferenze, traumi, fatiche e offese sopportate, la imagery della morte
attiva, energica, vitale e guerresca, come se appunto la morte fosse una delle «imprese di grande
altezza e momento», un assalto al Nirvana, l’atto perfetto dell’uomo completo che Amleto si
propone come modello di autenticità e che è il modello insieme dell’uomo d’azione e dello stoico, i
quali vincono in sé il terrore della morte.
31 III, i, 88 sgg. Scena con Ofelia. È molto amletico il fatto che, subito dopo la sua meditazione
sull’autenticità, Amleto si abbandoni alla passione e all’inautenticità di questa scena feroce e
straziante. Due sole osservazioni. La nunnery (v. 121) è, nel contesto, non o non primariamente
«un bordello» (secondo una delle accezioni elisabettiane del termine), ma un rifugio e santuario
lontano dal mondo, dal matrimonio che moltiplica il peccato (di vivere?), e un rifugio anche dalla
bellezza di Ofelia, che è una maschera, un non-valore. Il convento è come il bosco in cui Ippolito si
rifugia per proteggere la sua innocenza. Nulla nella scena, infine, implica necessariamente che