Page 378 - Shakespeare - Vol. 3
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12 I, ii, 76-86. Amleto alla sua prima entrata adopera vari registri: sfogo appassionato, riserva ironica,
                 meditazione dolente, rapido addolcimento. Qui esplode il suo lutto, che per lui è la vera realtà contro
                 le false apparenze del mondo. Ma poi sarà lui a usare le apparenze contro Claudio, ed è spesso
                 sulle apparenze che egli basa i suoi attacchi al mondo. La contrapposizione di apparenza e realtà è
                 un  luogo  comune  dell’epoca  e  uno  strumento  interpretativo  ideologico  aristocratico-etico,  in  realtà
                 una decurtazione dell’esperienza, che si connette alla malinconia.
              13 I, ii, 129-159. Primo soliloquio di Amleto. Il soliloquio è la forma maggiore della solitudine dell’eroe. Il
                 parlar da solo è quasi l’unica forma, per Amleto, di discorso sincero, di espressione della sua verità.
                 Con tutti gli altri, tranne Orazio e qualche volta la madre, Amleto usa delle maschere. Per Eliot le
                 motivazioni che qui dà Amleto − il lutto per il padre e lo sdegno per il rapido matrimonio della madre
                 − non sono sufficienti a giustificare il suo dolore e il suo rifiuto del mondo: e ciò sarebbe il maggiore
                 difetto estetico dell’opera. Gli psicanalisti e i critici che vedono l’iperdeterminazione drammatica non
                 sarebbero d’accordo. Lacan in un seminario del 1969 («Desiderio e interpretazione del desiderio in
                 Amleto»  in Calibano 4, Roma 1979, che traduce da Yale French Studies 55-6, 1978) scrive: «C’è
                 qualcosa  di  davvero  molto  strano  nel  modo  in  cui  Amleto  parla  del  padre.  L’esaltazione  e
                 l’idealizzazione che egli ne compie (contrasta con) il rifiuto, la maledizione, il disprezzo di cui rende
                 oggetto Claudio e che ha le apparenze della Verneinung, denegazione. Il torrente di insulti che gli
                 rovescia addosso sempre si riferisce al fallo di Claudio, e Amleto rimprovera la madre per essersene
                 riempita».  Si  noti  che  questo  atteggiamento  verso  lo  zio,  per  cui  non  mi  accontenterei  della
                 spiegazione di Lacan o degli altri psicanalisti, è precedente alla conoscenza dell’assassinio, e sembra
                 connettersi al malessere che è già in Amleto, sia umor saturnino, Weltschmerz, tedium vitae, abulia,
                 ennui,  spleen  o  malattia  mortale  di  Kierkegaard.  Si  direbbe  che  è  questa  sua  «malinconia»
                 (anch’esso  un  termine  ideologico,  di  tipo  scettico-razionalistico,  che  serve  a  rifiutare  il  concetto  di
                 possessione demoniaca, e che Amleto usa per sé a II, ii, 597) a cercarsi una ragione nella colpa
                 attribuita alla madre e allo zio, e nella stessa affermazione non provata delle «marce condizioni della
                 Danimarca» (v. nota a I, iv, 90). A questo si aggiunga forse il disgusto dell’idealista e del moralista,
                 o la rabbia del diseredato (III, ii, 331, al di sotto forse del livello ironico della battuta). L’inizio del
                 soliloquio (vv. 129-137) è depressione profonda, bile nera, cupio dissolvi, tentazione del suicidio, si
                 direbbe una sindrome maniaco-depressiva. Il passato è la sede dell’eroico, il presente una palude di
                 degradazione,  egli  stesso,  lungi  dall’essere  un  Ercole,  è  un  debole  peccatore  che  ha  un  bisogno
                 disperato di imitare i suoi modelli (che saranno Orazio e Fortebraccio, oltre al Padre). Di più, Amleto
                 desidera  passare  dal  non-essere  del  mondo  all’essere  della  morte  (apparenza  contro  realtà!),  di
                 infrangere il predominio dell’esserci prendendo d’assalto l’essere (Heidegger) e la felicità della morte
                 (V,  ii,  352).  È  la  preparazione  del  famoso  terzo  soliloquio.  Shakespeare,  che  aveva  mostrato  il
                 suicidio eroico (Bruto e Cassio nel Giulio Cesare) e ne mostrerà il rifiuto nel Macbeth («Perché dovrei
                 fare come lo sciocco romano, e gettarmi / sulla mia spada?») qui mostra il suicidio sentito come
                 liberazione esistenziale. L’ostacolo al suicidio è qui nella legge divina: si delinea il sistema dei valori di
                 Amleto (non, lo ripeto fino alla nausea, di quelli della tragedia): l’Eterno e le sue leggi, la Grazia che si
                 oppone  alla  Natura  negativa,  al  mondo.  Questo  atteggiamento,  che  è  medievale,  aristocratico  e
                 riformistico,  si  connette  però  a  istanze  profonde  di  tutte  le  culture  umane,  che  in  varie  forme
                 emergono in mille atteggiamenti pessimisti. V. nota a  I, v, 196-7. La seconda parte del soliloquio
                 (vv.  137-159)  si  presenta  come  la  motivazione  del  pessimismo  della  prima  parte:  come  tale  è
                 ossessiva, forzata, deformante, dommatica. Amleto riduce il più possibile la distanza dalla morte del
                 Padre, accusa ogni donna di essere volubile e maligna, denunzia la lussuria e l’incesto non provati
                 della  madre  e  dello  zio,  prevede  sciagure,  come  del  resto  avevano  fatto  sotto  l’influsso  del
                 fantasma gli amici Orazio e Marcello, cui sarà messo in bocca il punto di vista amletico nella famosa
                 battuta a I, iv, 90.
                 Eppure la Danimarca, sotto Claudio, si direbbe ben governata, né del resto Amleto si preoccupa mai
                 sul serio dello stato della Danimarca, oltre ad accusare gli abitanti di un eccessivo amore del buon
                 vino. Ha ragione Eliot a dire che questi motivi non sono sufficienti, ma egli non capisce che proprio
                 questo  è  il  punto:  i  motivi  coscienti  nascondono  il  rimosso,  la  seconda  parte  del  soliloquio  non
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