Page 377 - Shakespeare - Vol. 3
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6 I, ii. In opposizione al «prologo» notturno, questo pàrodo sfarzoso, colorito, luminoso: la splendida
                 corte,  gli  squilli  di  trombe,  l’andamento  cerimoniale,  i  discorsi  ufficiali,  le  immagini  bilanciate  creano
                 un’atmosfera di pacatezza, di chiarezza, di ordine. La scena ha tre momenti: il discorso del re sul
                 proprio  operato  e  le  sue  disposizioni  «in  politica  estera»,  seguiti  dall’udienza  e  dalle  delibere
                 riguardanti i più intimi o i familiari. Poi il primo dei sette soliloqui di Amleto. Infine l’incontro di Amleto
                 con Orazio e gli altri amici, che fanno pervenire il messaggio muto del fantasma e fissano l’«incontro
                 ravvicinato».
               7 I,  ii,  1-16.  Prima  parte  del  discorso  del  Re.  È  considerata  di  solito  un  esempio  di  ipocrisia
                 machiavellica, di doppiezza solenne, la prima manifestazione del villain della tragedia. Ma Kittredge
                 già notava nel discorso regale non una villainy ma una ceremony, e Wilson Knight lo positivizza del
                 tutto.  Conviene  riflettere  se  l’interpretazione  tradizionale  non  sia  dovuta  a  un  pregiudizio  che
                 schematizza troppo il play. Al fruitore non tocca schierarsi con nessuna delle due parti né guardare
                 con  gli  occhi  di  Amleto  e  credere  ciecamente  in  ciò  che  egli  dice.  Il  secondo  dei  due mighty
                 opposites (V, ii, 62) è un tyrannos complesso e ambiguo. Questo suo discorso, e quello diretto ad
                 Amleto (87-128) non è legittimo ridurli a delle finzioni ipocrite. Essi hanno vari piani di significato, varie
                 potenzialità, ciascuna delle quali, isolata, dà luogo a una interpretazione. Il discorso del re può avere
                 anzitutto un significato letterale: discorso sull’ordine e sulla gerarchia, espressione di saggezza politica
                 e di desiderio di riconciliazione. Così può apparire a Polonio, alla Regina, a Laerte ecc., e sarebbe,
                 oggettivamente, il discorso giusto di un uomo ingiusto, o come dicono le Coefore  (398)  «il  giusto
                 che  sorge  dall’ingiusto».  Le  parole  del  re  possono  anche  significare,  a  un  livello  più  basso,  il  suo
                 desiderio costruttivo di ristabilire un ordine che porti rimedio alla colpa, come sarà implicito nel suo
                 rimorso  a III,  iii,  36-72.  Claudio  non  sarebbe  il  primo  usurpatore  e  uccisore  in  Shakespeare  che
                 diventa  un  re  capace.  Alle  frequenze  più  basse  cogliamo  nel  discorso  i  piani  dell’emotività,  della
                 hybris,  delle  passioni,  della  sofferenza:  per  es.  l’avidità  di  potere  di  Claudio  ma  anche  la  sua
                 tolleranza e il suo forte amore per la regina (IV, vii, 14-16). Tutti questi piani, e il piano dell’inganno
                 che vi sente Amleto, costituiscono l’entità indefinibile e carismatica che è Claudio, la cui ultima realtà
                 di uomo «deinòs» (portentoso) è indefinibile e ingiudicabile (come sapeva Cristo), investita com’è
                 dalle forze della Moira, della Tiche, di Ate. Claudio è complesso come Macbeth, e una complessità
                 appena  minore  si  trova  nella  regina  e  in  Polonio,  in  armonia  con  la  prospettiva  drammatica  e  il
                 degradare  dal  centro  in  fuori  della  polisemia.  A  meno  che  non  si  prendano  alla  lettera,  come  fa
                 anche  Jenkins,  i  giudizi  appassionati  di  Amleto,  che  accusa  lo  zio  di  essere  un  mostro  rispetto  al
                 Padre-Dio (ma il giudizio è fondato sulle apparenze, perché eticamente sia Claudio che i due Amleti
                 sono degli assassini), la madre di adulterio (non provato) e di incesto (assai discutibile) e che accusa
                 Polonio, pedante ma certo intelligente e saggio, di essere un buffone, un idiota e un sordido tirapiedi
                 del re (tutte accuse non provate).

               8 I,  ii,  8.  Esempio  di  commento  dettato  da  pregiudizio.  Per  Jenkins  la  natura  incestuosa  del
                 matrimonio regale è qui chiarita fin dall’inizio. Se così fosse, Claudio sarebbe un idiota a proclamare
                 solennemente il proprio incesto nel consiglio di corte.

               9 I,  ii,  64.  Warburton  (cit.  in  Furness, I,  p.  32)  emenda  la  fine  del  verso  in  «kind  my  son»,  per
                 ottenere «a pertinence for Hamlet’s reply, which otherwise it lacks». In verità ci si aspetterebbe,
                 nelle ultime parole di questa battuta del re, una cue (imbeccata), uno spunto per il sarcastico gioco
                 di parole di Amleto. Qualcosa come «But now, my cousin Hamlet, my kind kin...».
              10 I, ii, 67. «I am too much in  the  sun».  Jenkins  ricorda  che  alla  battuta  sono  stati  trovati  ben  45
                 significati. Tra i quali: un richiamo al sole come simbolo regale, o al sole del favore a corte, o allo
                 splendore e alla gaiezza della corte, o al sole che corrompe di II, ii, 181-182, o alla natura iperionica,
                 solare del padre morto, o infine un gioco con son, che è omofono, per dire: «sono fin troppo vostro
                 figlio».
              11 I, ii, 74. Con disprezzo aristocratico per ciò che è «comune» Amleto ammette la necessità, per un
                 uomo comune, di accettare la morte del padre.
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