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come  accenna  Humphreys,  da  J.D.  Wilson  nella  sua  importante  edizione
          Cambridge  e  nel  volume The  Fortunes  of  Falstaff  (Cambridge  1943),  e  da
          E.M.W. Tillyard in Shakespeare’s History Plays (London 1944, rist. New York,
          Barnes and Noble, 1964). La posizione di John Upton è stata invece sostenuta

          con  moderazione  e  modificata  da  H.  Jenkins, The  Structural  Problem  in
          Shakespeare’s          «Henry IV»  (London,  Methuen,  1956),  che  ipotizza  un
          ripensamento  del  drammaturgo  durante  la  stesura  della Parte I,  e  da  M.A.
          Shaaber, The  Unity  of  «Henry IV» (Joseph Quincy Adams Memorial Studies,

          Washington,  D.C.,  1948),  che  contesta  Tillyard  e  Wilson  punto  per  punto,
          nota  che  la Parte II è nella struttura delle scene una «copia carbone» della
          Parte I, e sostiene acutamente che la presunta unità dei due drammi, lungi
          dal  renderli  più  validi  (come  vorrebbero  i  suoi  sostenitori),  è  irrilevante

          rispetto al loro valore poetico: «Non abbiamo bisogno di imporre uno schema
          logico  a  tenuta  stagna  sui  drammi  di  Shakespeare  per  giustificarli
          artisticamente;  ci  avviciniamo  molto  di  più  al  nucleo  luminoso  del  loro
          interesse per altre strade».

          Che  i  drammi  di  Shakespeare  siano  ricchi  di  incongruenze  strutturali  e
          narrative è stato spesso segnalato, come anche l’uso consapevole da parte
          del drammaturgo di queste zone d’ombra della percezione dello spettatore.
          Anche chi assistesse a una rappresentazione consecutiva di Henry IV e Henry

          V difficilmente si accorgerebbe che nella Parte I l’ostessa Quickly è sposata al
          locandiere,  nella II vedova, e nell’Enrico V sposata proprio a quel Pistol che
          nella Parte II le risulta insopportabile. Ciò di cui lo spettatore non si accorge è
          come se non fosse, e al drammaturgo serviva di più una Quickly dallo stato

          anagrafico  diverso  nei  tre  lavori  che  una  congruenza  astratta.  Su  questo
          aspetto  dei  testi  si  veda  K.  Smidt, Unconformities  in  Shakespeare’s  History
          Plays (London, Macmillan, 1982), il quale scorge nelle smagliature tracce di
          diverse stesure (ad esempio nei due discorsi del Re sul Principe all’inizio di IV,

          iv, il primo positivo, il secondo addirittura sconvolto).
          Ricordiamo altri studi sulle Histories: L.B. Campbell, Shakespeare’s Histories,
          San  Marino,  Ca.,  Huntington  Library,  1947;  D.  Traversi,  Shakespeare  from
          «Richard II»  to  «Henry V»,  Stanford,  Ca.,  1957;  M.M.  Reese, The  Cease  of

          Majesty, New York, St. Martin’s Press, 1961; S.C. Sen Gupta, Shakespeare’s
          Historical  Plays,  London,  Oxford  Univ.  Press,  1964;  H.A.  Kelly,  Divine
          Providence  in  the  England  of  Shakespeare’s  Histories,  Cambridge,  Ma.,
          Harvard Univ. Press, 1970; R. Ornstein, A Kingdom for a Stage, ivi, 1972; M.E.

          Prior, The Drama of Power, Evanston, Northwestern Univ. Press, 1973; J.L.
          Calderwood, Metadrama  in  Shakespeare’s  Henriad,  Berkeley,  Univ.  of
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