Page 842 - Shakespeare - Vol. 2
P. 842

giovane,  intraprendente  e  grasso,  beffato  e  astuto,  debole  per  principio  e
          risoluto per costituzione, vigliacco in apparenza e coraggioso in realtà; stolto
          senza  malizia,  bugiardo  senza  inganno;  un  cavaliere  e  un  soldato  senza
          dignità né decenza né onore. È un personaggio che, per quanto lo si possa

          decomporre,  non  poteva,  credo,  essere  formato,  né  gli  ingredienti
          giustamente  mescolati,  secondo  una  qualsiasi  ricetta.  Ci  voleva  la  mano
          stessa di Shakespeare per dare a ogni parte il gusto del tutto, e del tutto a
          ogni  parte:  sempre  lo  stesso  Falstaff  incongruo  e  identico».  L’adorazione

          settecentesca  di  Falstaff  è  anche  espressa  da  Thomas  Davies  nelle  ottime
          Dramatic Miscellanies, Consisting of Critical Observations on Several Plays of
          Shakespeare,  London  1785:  «Quanto  a  Falstaff,  del  cui  carattere  nessun
          uomo  può  dire  troppo,  e  ogni  uomo  avrà  quasi  paura  di  dire  qualcosa,

          temendo  di  non  essere  capace  di  trattare  un  soggetto  così  fertile  come
          merita: nel giudizio di tutti gli uomini egli è il supremo capolavoro del nostro
          inimitabile scrittore, e di tutta la poesia teatrale» (I, p. 202). Un altro acuto
          zelatore  del  grasso  cavaliere  fu  William  Hazlitt,  in Characters  of

          Shakespeare’s  Plays,  London  1818,  che  giudica  lo  sconclusionato  racconto
          dell’ostessa  Quickly  sulla  promessa  di  matrimonio  fattale  da  Falstaff  il
          mercoledì della settimana di Pentecoste (II, i, 83-100) «una delle descrizioni
          più  caratteristiche  di  Sir  John»,  la  più  convincente  dimostrazione  della  sua

          capacità  «di  guadagnarsi  il  favore  di  quelli  con  cui  aveva  familiarità:  salvo
          invero l’esclamazione un poco blasfema di Bardolph quando apprende la sua
          morte: “Vorrei essere con lui, dovunque sia, in paradiso o all’inferno” [Henry
          V,    II,  iii,  7-8]».  Hazlitt  fu  anche  severamente  critico  nel  1816

          dell’interpretazione bonacciona di Stephen Kemble, indicando la via a letture
          meno  ridanciane  del  personaggio.  Sugli  sproloqui  della  Quickly  scrisse  S.T.
          Coleridge nel quarto degli Essays on the Principles of Method, vedi (anche per
          i rapporti con la Nutrice di Romeo and Juliet) B. Hardy, The Talkative Woman

          in Shakespeare, Dickens and George Eliot,  in  AA.VV.,  Problems for Feminist
          Criticism,  London,  Routledge,  1990.  Su  Pistol  si  veda  il  contributo  di  L.
          Hotson, Ancient  Pistol,  in Shakespeare’s  Sonnets  Dated  and  Other  Essays,
          London, R. Hart-Davis, 1949. Su Hal e il disconoscimento è utile ricordare la

          posizione  di  L.L.  Schucking, Character  Problems  in  Shakespeare’s  Plays,
          London, Harrap, 1922: «Cosa può avere indotto Shakespeare a mostrare il Re
          in  questa  luce?  [...]  Sicuramente  l’intenzione  non  è  che  egli  commetta
          un’azione  reprensibile.  Troveremo  che  la  vera  ragione  è  la  stessa  che  ha

          condotto  alla  rappresentazione  indulgente  della  sua  vita  di  taverna  nel
          monologo.  È  la  fedeltà  e  il  rispetto  del  poeta  per  l’idea  della  regalità.  La
   837   838   839   840   841   842   843   844   845   846   847