Page 1761 - Shakespeare - Vol. 2
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in una fiaba, c’è un duca cattivo al potere, e uno buono che viene cacciato in
          esilio. Ma alla fine il cattivo diventa buono e lascia il potere, per farsi eremita,
          all’altro buono che torna al potere lasciando la vita solitaria dei boschi: un
          intreccio-cornice a chiasmo, che par ripetersi, sia pure imperfettamente, nella

          vicenda  dei  due  giovani  fratelli  figli  del  duca  cattivo,  e  che  sono  il  cattivo
          Oliver e il buon Orlando: ma il cattivo diventerà buono e sceglierà il bosco
          (per  ricredersi  alla  notizia  dell’eredità,  ma  ogni  arte  deve  pur  variare  sulla
          regola),  mentre  il  buono  ripasserà  alla  fine  dal  bosco  alla  vita  mondana.

          Arriviamo  al  cuore  della  commedia,  la  vicenda  delle  due  cugine,  una,
          Rosalinda, figlia del duca buono, e un’altra, Celia, figlia del duca cattivo, che
          sposeranno  la  prima  il  giovane  buono  e  la  seconda  l’ex  cattivo.  Qui  la
          combinazione è con le altre due coppie di sposini, e tutte e quattro le coppie

          costituiranno il gran conclave matrimoniale che chiude l’opera. Ma non senza
          che  la  terza  coppia,  quella  dei  pastori  Silvio  e  Febe,  dia  luogo  a
          sottocomplicazioni d’amore. Ci sono poi, a coppia almeno vocazionale, i due
          raisonneurs  Jaques  e  Touchstone,  il  primo  signore  raffinato  e  il  secondo

          buffone  di  mestiere,  ma  ambedue  appunto  con  una  vocazione  da  matti  e
          perciò  più  vicini  forse  al  cuore  delle  cose:  in  fondo  tutti  e  due homines
          ridentes e morosophes (saggi pazzi) come avrebbe detto Rabelais. E il colore
          locale è assicurato dai due rustici, Colin e William.

          Tutti questi personaggi Shakespeare li accosta uno con l’altro come si fa con
          due poli elettrici e ne fa scoccar la scintilla del dialogo, quello che Johnson
          vantava  come  migliore,  per  spontaneità  e  brio  vitale  che  par  creato  senza
          fatica, persino del dialogo delle tragedie. L’azione è più interna che esterna, e

          quella esterna è riportata con sprezzatura e ironia, in modo da non turbare
          molto il gran fluire delle conversazioni e i momenti sospesi dei canti coi loro
          temi variegati, ed è un’azione romanzesca e fiabesca, ben poco attenta non
          dico al decoro − Shakespeare è spesso «indecoroso», sia nei frizzi e lazzi del

          gran clown anticipatore di molte fortunate gags della clowneria da venire, che
          nelle battute delle sue giovani eroine quasi sempre sensuose e scurrili − ma
          alla  regola  della  verosimiglianza,  come  ogni  fiaba  che  si  rispetti.  Non  per
          nulla  dice  Puck  nel Sogno  che  le  cose  che  gli  piacciono  di  più  son  quelle

          assurde.  Shakespeare,  dice  il  critico  Barnet,  lavorò,  rispetto  alla  fonte,  a
          rendere la sua commedia implausibile, e la rapidità e l’improbabilità dei suoi
          mutamenti  interni  sono  parte  del  significato  dell’opera.  L’illogicità,
          l’inverosimiglianza, è motivo importante nella commedia, tema congiunto a

          quello  del  Caso,  della  Fortuna.  La  quale,  ripeto,  è  la  vera  regista  dello
          spettacolo, e non è per nulla l’angelo provvidenziale dei critici moralisti, ma la
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