Page 1759 - Shakespeare - Vol. 2
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ego».  Ed  egli  sa  apprezzare,  come  dovrebbe  fare  ogni  fruitore  della
          commedia, l’intima unione della serietà e della tristezza con la comicità più
          demistificatoria e liberatoria: «In hilaritate tristis, in tristitia hilaris» (Giordano
          Bruno).  L’otium  dei  pastorali  è  mirabile  cosa,  ma  può  anche  essere  un

          terribile vuoto, una noia atroce: ridursi alla sterile meditazione della «nascita-
          copula-morte»  dello  scarno burlesque  di  T.S.  Eliot, Sweeney  Agonistes.
          Perché  l’uomo  è  «un  animale  politico»  (Aristotele)  e  l’arco  della  nostra
          commedia si conclude saggiamente col ritorno al mondo della polis, ma senza

          quei guadagni spirituali, senza quella quasi-redenzione che vi trovano a ogni
          costo alcuni critici. L’altra scelta possibile è il vero e proprio eremitaggio, ma
          la commedia si guarda bene dall’esaltarlo: esso è, nel duca usurpatore e ora
          pentito, una scelta venuta molto a proposito, e poi un magnifico espediente,

          tra gli altri, per chiudere la commedia. Ma se ne parla en passant, e lo stesso
          claustrofilo Jaques lo indica senza ombra di rispetto religioso, come una fonte
          transitoria di ottimi conversari, e anzi quasi con una blasfema sprezzatura,
          come di un altro modo di «faire flanelle». Meglio alla fine, in ogni caso, lasciar

          la  campagna  ai  contadini,  e  decidere,  con  Baudelaire  e  il  suo  «viaggiatore
          vero», di non voltare mai le spalle al proprio destino. In questo senso, Come
          vi piace è poco ecologico, poco pastorale.
          E  anzi,  col  continuo  ritorno  che  vi  fanno  i  temi  del  tempo  e  della  Fortuna,

          padrona  del  mondo  verde  come  di  quello  grigio,  la  commedia  è  piena  di
          spirito scettico e rabelaisiano, montaignesco e cervantino. Essa è in qualche
          modo  una  fiaba,  ma  una  fiaba  i  cui  accenti  gai  si  conciliano  con  l’umor
          saturnino e malinconico, una fiaba manieristica: un’anatomia, come si diceva

          a quei tempi, della natura e della mente umana, anzi della natura che è nella
          mente umana.
          L’Arcadia  è  poi  la  terra  dell’immaginazione  e  della  poesia,  ma  anche  qui
          Shakespeare non perde il suo buonsenso campagnolo e popolare. Sull’al di là,

          sul  divino,  egli  sospende  il  giudizio  con  cauta  riverenza,  riconoscendone  la
          presenza misteriosa, ma nel fondo della sua opera c’è sempre l’attenzione per
          questa  terra,  per  lo hic  et  nunc,  e  la  dimensione  realistica  è  sempre  lì  in
          fondo, a far da bordone alle sue fantasie più sfrenate, ai suoi momenti più

          stellari. La vita è un incanto, come dice la canzonetta di Amiens, eppure con
          tutte  le  sue  aspirazioni  e  potenzialità  più  lungimiranti,  con  tutte  le  sue
          fantasie, i suoi Orfei pastori, i suoi Eden e le sue età dell’oro, l’unica salvezza
          dell’uomo da un destino tragico è, come sapevano i greci, il suo fermo senso

          di  quel  limite  che  è  la  sua  pace  e  la  sua  condanna:  «meden  agan»,  mai
          troppo.  L’idea  che  l’Arcadia  è  cosa  meramente  poetica,  messinscena
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