Page 1756 - Shakespeare - Vol. 2
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PREFAZIONE







          Questa  cosa  che  ho  fatto  per  voi  −  supponiamo  che  voglia  dire  l’ermetico

          Shakespeare  per  entro  il  titolo  della  sua  commedia  −  prendetela  come  vi
          pare. Io non ne ho detto in modo più chiaro il senso perché non lo so; e non
          m’importa,  se  mai  la  cosa  può  importare,  a  quale  genere  o  sottogenere  o

          genere misto vogliate farla appartenere. Io vi presento questo microcosmo,
          ancora una sintesi del modo in cui vedo il gran mondo e il mio piccolo mondo,
          il  mio  teatro,  la  mia  scrittura.  Una  cosa  plasmata  in  questa  maniera
          drammatica mi esime dal mettere in mostra me stesso, cosa che detesto − in
          questo soltanto sono aristotelico, come direbbe il mio coltissimo amico Ben

          Jonson,  che  però  fa  andar  di  traverso  una  cena  perché  parla  troppo  degli
          antichi  −  e  mi  risparmia  anche  dal  far  la  morale,  cosa  che  detesto
          egualmente. I miei attori-personaggi sono staccati da me e ognuno di loro

          risponde  di  ciò  che  dice.  E  ciò  che  avviene  in  questa  realtà  finta,  e  nella
          finzione del palco, è lì mostrato e basta. So bene che ognuno vedrà questo
          mondo che mostro a modo suo, e s’illuderà di capirlo e di poterlo spiegare.
          Ma io, come uomo che non c’entra, son casomai più vicino a chi non capisce.
          Non  ho  voluto  che  mostrarvi  la  vita,  guardata  con  occhio  divertito  o  con

          occhio atterrito, la vita che non capisco e non m’illudo di capire. Questo è
          l’unico  mio  messaggio,  che  stavolta  però  è  un  non  capire,  spero,  assai
          divertente.  Tutto  il  mondo  recita  la  commedia,  e  la  Fortuna  è  sempre

          padrona della scena. Prendiamola con pietà e ironia, e nel caso presente con
          un distante buonumore. Allora sorrideremo e rideremo di quelle stesse cose
          che in un altro momento ci farebbero piangere.
          Se  questa  supposizione  ha  qualcosa  di  vero,  è  inutile  qui  affibbiare  a
          quest’opera  maestra  della  maturità  di  Shakespeare  un’etichetta  esteriore:

          commedia romantica, o pastorale, o problematica, o della natura e cultura o
          del gioco, dell’amore e del metateatro, o quasi tout court il nome commedia.
          In altra sede se ne potranno approfondire i modelli e le loro mescolanze, la

          genesi e i meccanismi del suo funzionamento. Essa mantiene da cima a fondo
          la  promessa  scherzoso-ironica  del  titolo,  perché  con  tutta  la  sua  fresca
          gaiezza è opera davvero aperta, farcita di temi e interpretabile in modi assai
          diversi, quando si isoli uno dei suoi armonici o timbri, che tutti contribuiscono
          alla sua musica dell’insieme.

          Della pastorale, della poesia del mondo verde, il lavoro ha parecchi aspetti:
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