Page 1751 - Shakespeare - Vol. 2
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all’uccisione del proprio migliore amico, per di più commessa “a mente fredda e in piena lucidità”.
                 “Un uomo in gamba, il Re”: ma le lodi cominciano dall’ordine di sgozzare i prigionieri e finiscono con
                 l’evocare il fantasma di Falstaff.
            143 IV,  vii,  61  Altri  prigionieri  sfilano  sulla  scena:  la  minaccia  di  un  secondo  eccidio  è  per  il  Re  una
                 necessità  tattica,  per  Shakespeare  un’esigenza  scenica,  ad  illustrare  la  sproporzione  delle  forze  in
                 campo. Ma stavolta si tratta solo d’una minaccia: la collera di Enrico − come ogni altra passione
                 dell’uomo − è sotto controllo.

            144 IV, vii, 74 La principale preoccupazione dei capi francesi sembra il recupero dei nobili caduti. Per i
                 “semplici fanti”, i “nostri plebei” non una parola di pietà, ma un’ostentata ripugnanza. Nobili e plebei
                 hanno  versato  insieme  il  loro  sangue,  ma  non  certo  per  una  causa  comune:  esattamente  al
                 contrario dei loro avversari inglesi.
            145 IV, vii, 82 Le parole di Montjoy sono quelle di uno sconfitto, ma il Re non può ancora dirsi certo
                 dell’esito della giornata, e torme di nemici continuano a percorrere il campo: ennesima sottolineatura
                 dell’inferiorità numerica inglese.

            146 IV, viii, 53 La dignità di Williams si contrappone al sacro zelo di Fluellen e al divertito paternalismo del
                 Re,  che  al  lettore  odierno  può  anche  dare  fastidio.  Un  semplice  soldato  dalle  scarpe  rotte  dà  ai
                 superiori una lezione di stile. E appare lampante che la “morale” dei re non è quella dei loro sudditi.
            147 IV, viii, 71 Una probabile stima delle perdite umane, secondo gli storici moderni, indica circa 7000
                 francesi e 4500 caduti inglesi.
            148 IV, viii, 104 Dopo tanto parlare di “fratelli in armi”, fatta la conta dei morti, ecco ristabilite le distanze
                 sociali. Ma il Re fa di peggio − dicono i suoi detrattori: attribuendo all’Onnipotente il miracolo della
                 vittoria, egli defrauda i fanti e gli arcieri che tale miracolo han reso possibile. Si è molto discusso sulla
                 pietas di Enrico, sovente accusato di santocchieria. A noi basti dire che mentre l’ultima invocazione a
                 Dio  prima  della  battaglia  ha  un  gagliardo  sapore  di  “o  la  va  o  la  spacca!”,  il  rendimento  di  grazie
                 finale  ha  tutto  il  pathos  della  sincerità.  Se  Enrico  defrauda  i  suoi  uomini  di  tanto  onore,  defrauda
                 anche se stesso; e Shakespeare evita di sottolineare il contributo personale del Re alla vittoria, che
                 andò  oltre  il  suo  ruolo  di  trascinatore  di  uomini:  al  corpo  a  corpo  con  Alençon,  per  esempio,  si
                 accenna  per  interposta  persona.  Più  che  protagonista  della  giornata  Enrico  ne  è  testimone:
                 interviene qua e là con decisione, ma non è lui a decidere i tempi e i luoghi del combattimento. La
                 vittoria è pertanto un miracolo collettivo.

            149 V  Dopo  il  movimento,  la  tensione,  la suspense della giornata di Agincourt, l’ultimo atto è visto da
                 molti  come  un anticlimax: ed anche al Coro fanno difetto l’afflato lirico, la capacità evocativa delle
                 precedenti apparizioni. Più che all’immaginazione, esso fa appello − come il Coro del III atto − alla
                 rapidità del pensiero, “la fucina pulsante e industriosa” della nostra mente, per superare i cinque anni
                 che separano Agincourt dalla Pace di Troyes. Taluni eventi sono vividamente descritti (lo sbarco a
                 Dover  e  il  trionfale  rientro  nella  capitale),  altri  appena  accennati  (il  ritorno  a  Calais,  la  visita
                 dell’Imperatore Sigismondo in missione di pace, nel 1416, il successivo ritorno in Francia del Re), altri
                 ancora dichiaratamente omessi (le campagne del 1416-19 e i vari tentativi di pace negoziata).
            150 V,  2  L’immagine  di  sé  che  il  Re  ha  proiettato  con  successo  per  tutto  il  dramma,  e  che  tra  poco
                 riproporrà nella scena del corteggiamento. Ma non dimentichiamo che Enrico ha − da sempre − un
                 alto senso della sua missione: da principe ereditario si riprometteva di “imitare il sole” ed abbagliare il
                 mondo  squarciando  all’improvviso  le  nubi  (1-Enrico iv);  da  re  ha  proclamato  di  voler  risorgere
                 “sfolgorante di gloria, abbacinando gli occhi della Francia intera” (I, ii).
            151 V, 30 Si tratta dell’unico riferimento diretto, nell’opus shakespeariano, a eventi politici contemporanei:
                 il generale è Robert Devereux, Conte di Essex (1567-1601), ambizioso favorito della Regina, partito
                 il 27 marzo 1599 per domare la ribellione di Hugh O’Neill, Conte di Tyrone, in Irlanda, e rientrato in
                 capo a sei mesi (28 settembre) per render conto alla sovrana del mancato successo, che segnò la
                 fine delle sue personali fortune.
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