Page 1747 - Shakespeare - Vol. 2
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“fratelli, amici, compatrioti” del Re, liberi ed eguali nel momento della verità.

            105 IV, 30 Di questa veglia d’ispezione non c’è traccia in Hall e Holinshed. Shakespeare ne fa un episodio
                 cruciale.

            106 IV, 42 Il buon comandante non ha bisogno di illudere per rincuorare. E il Re non perde mai − e
                 meno che mai nei momenti critici − il “piglio allegro” (cheerful semblance), la capacità di scherzare.
                 «Coloro a cui sfugge l’allegrezza (gaiety)  del IV atto perdono una delle cose migliori del dramma»
                 (Dover Wilson).
            107 IV,  47  I  modesti  mezzi  del  Coro  possono  dare  “appena  un’idea”  (a  little  touch)  di  quel  che  ha
                 significato  questa  ronda  notturna  di  Enrico.  Se  il mean  and  gentle  all  è  riferito  (anziché  agli
                 spettatori) agli uomini del Re, il senso è: ...e tutti loro, nobili e plebei, potranno dire di aver visto
                 “qualcosa”, “un non so che” di Harry nella notte. Si è tradotto questo celebre verso come se il Coro
                 si rivolga tanto alla platea quanto ai reduci di Agincourt.
            108 IV,  51  L’apologia  per  i  “quattro  o  cinque  miserrimi  ferri  spuntati”  è  di  prammatica.  Anche  Ben
                 Jonson, contemporaneo e rivale di Shakespeare, ironizza sulle “tre spade arrugginite” cui spetta di
                 combattere  la  Guerra  delle  Rose  (Prologo  a Every  Man  in  His  Humour,  messo  in  scena  dalla
                 compagnia  di  Shakespeare  nel  1598);  e  Sir  Philip  Sidney,  poeta  principe  alla  corte  di  Elisabetta  e
                 critico di fama, scrive in An Apologie for Poetrie (1595): «Irrompono due armate, rappresentate da
                 quattro spade e altrettanti scudi: e chi sarà tanto duro di cuore da non voler scorgere in esse un
                 campo di battaglia?». L’artista elisabettiano sa di poter contare sull’immaginazione del pubblico.
            109 IV, i È una scena fondamentale per la comprensione del dramma, l’unica che veda il Re in conflitto
                 con  se  stesso,  in  preda  a  dilemmi  più  grandi  di  lui,  nello  sforzo  di  uscire  dalla  corazza  di  intima
                 solitudine  ch’è  inseparabile  dalla  responsabilità  del  potere.  Si  dà  per  scontato  che  qui  il  sovrano,
                 dapprima soldato fra i soldati, poi finalmente solo con se stesso, riveli la sua più autentica umanità.
                 È più corretto dire che rivela soltanto una parte del suo io più vero. Osserva Gary Taylor che, salito
                 al  trono,  Enrico  ha  crudelmente  tagliato  i  legami  con  Falstaff  (e  con  molte  cose  che  lo  facevano
                 sentire  vicino  alla  comune  umanità).  Voltata  pagina,  dovrà  restare  in  un  mondo  impregnato  di
                 formalismi, alle prese con Vescovi, Pari, ambasciatori stranieri, un mondo che si regge sul calcolo
                 politico, dove anche un amico può esser spinto a tradire. Solo ora, nel momento di giocarsi il tutto e
                 per tutto, ristabilisce un genuino, informale contatto coi suoi; e solo soffrendo sino in fondo il dissidio
                 fra  il  suo  Io  privato  e  il  suo  Io  di  regnante  può  ritrovare  in  qualche  misura  se  stesso.  Negli  anni
                 Novanta son numerosi i drammi in cui il Re, sotto mentite spoglie, tasta il polso ai suoi sudditi: da tali
                 incontri  la  sua  statura  di  sovrano  esce,  ovviamente,  accresciuta.  Shakespeare  tratta  il  tema  in
                 modo men che convenzionale: Pistola manda il Re a quel paese, Fluellen e Gower lo ignorano, Bates
                 mugugna,  Court  tace,  Williams  non  si  lascia  convincere  e  finisce  con  lo  sfidare  l’interlocutore.  Lo
                 spettatore è frustrato nelle sue aspettative e, invece di certezze, ne ricava dei dubbi: i dubbi del
                 soldato Williams diventano i suoi.
            110 IV,  i,  didascalia  Sir  Thomas  Erpingham  (1357-1428):  feudatario  del  Norfolk,  ciambellano  della  real
                 casa e valoroso soldato. È lui a comandare lo schieramento inglese ad Agincourt.
            111 IV, i, 51 Enrico, noto come Enrico di Monmouth, era stato Principe di Galles. Le battute tipo “Harry
                 Le Roy”, quel suo dire la verità depistando, fanno pensare a certe amenità di Amleto: come del
                 resto certe risposte date a Williams, in tutt’altro spirito.
            112 IV, i, 55 Il porro cui allude Pistola è l’emblema del Galles. Ricorda una mitizzata vittoria sui Sassoni,
                 nel  540:  le  tribù  gallesi  lo  portavano  in  segno  di  riconoscimento.  Nel  giorno  di  San  Davide  (1°
                 marzo), patrono del Galles, si usava portare il porro sul cappello.

            113 IV, i, 85 Brother John Bates, is not that the morning which breaks yonder? «Appena undici parole −
                 e il resto è silenzio. Ma queste parole ci portano nei pensieri segreti di un uomo che non si aspetta di
                 vedere un’altra alba; e nel suo silenzio ci pare di udire i battiti del suo cuore» (H.C. Goddard). Li
                 sentiremo,  questi  battiti,  sino  alla  fine  della  scena  −  dell’atto  −  del  dramma.  Sarà  caduto  in
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