Page 1744 - Shakespeare - Vol. 2
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resa  col  mezzo  tradizionale  e  meccanico  dei  dialetti,  e  di  facili  stereotipi  nazionali:  lo  scozzese  è
                 secco,  angoloso,  laconico;  l’irlandese  rustico,  iperemotivo  e  verboso.  Il  traduttore  ha  cercato  di
                 rendere gli accenti “duri” e “molli” dell’uno e dell’altro. Capitan Gower è privo di accento, ma è anche
                 lui uno stereotipo: quello dell’inglese solido e sensato, lento di reazioni ma del tutto affidabile.
              76 III, ii, 117 MacMorris s’infuria solo a sentire nominare la propria nazione: evidentemente è abituato
                 a sentir dire corna degli irlandesi, la cui violenza e indisciplina inducono la Regina, alla fine del 1598, a
                 chiederne  l’allontanamento  dall’esercito.  I  regolamenti  militari  dell’epoca  reprimono  con  severità  le
                 frequenti risse fra soldati di diverse nazioni. Quanto a MacMorris, è un primo prototipo di quello che
                 sulle scene inglesi diverrà lo stage Irishman: l’“irlandese da commedia”, irruento e confusionario.
              77 III,  iii  La  tremenda  rappresentazione  della  sorte  spettante  ai  civili  innocenti,  in  caso  di  mancata
                 capitolazione, può non piacere al lettore moderno: non a caso la scena non figura nel celebre film di
                 Laurence Olivier, girato nel 1944: le atrocità vanno lasciate al nemico. Ma Enrico è innanzitutto un
                 soldato  e  parla  da  soldato:  il  fato  delle  città  che  non  si  arrendono  all’inevitabile  è  quello  da  lui
                 descritto. Un fato antico quanto le Scritture: secondo le Gesta il Re, «che cercava la pace, non la
                 guerra», fa in effetti ad Harfleur una generosa offerta di pace, secondo le leggi del Deuteronomio;
                 ed  anche  secondo  le  leggi  di  guerra  comunemente  accettate  nel  Cinquecento.  I  difensori  sono
                 doppiamente colpevoli: di non cedere la città al suo re legittimo, e di difenderla quando è «già per
                 metà conquistata». Enrico non fa che pronunciare un ultimatum − che forse è anche un bluff, visto
                 che le sue truppe sono a malpartito. L’aspro realismo delle sue minacce serve a evitare un’inutile
                 strage.
              78 III, iv La Principessa è Caterina di Valois (1401-1431), futura Regina d’Inghilterra (1420-22), madre
                 di  Enrico VI e, in seconde nozze, sposa di Owen Tudor, fondatore della dinastia che ascenderà al
                 trono  con  Enrico VII nel 1485, dopo le alterne vicende della Guerra delle Rose. La scena (spesso
                 tagliata  in  teatro)  è  senza  dubbio  banale  −  tanto  che  ne  è  stata  messa  in  dubbio  la  paternità
                 shakespeariana − ma può divertire gli elisabettiani, ghiotti di ambiguità verbali e per nulla abituati a
                 sentir parlare francese in teatro.
              79 III, iv, 26 “De bilbow” sta per elbow (“gomito”): bilbo è una spada di buon acciaio, e anche l’anello
                 al piede del prigioniero. In questo caso, il primo anello di una catena di oscenità involontarie messe in
                 bocca  a  Caterina. Neck  (“collo”)  diventa nick  (“vulva”)  e chin  (“mento”)  diventa sin  (“peccato”).
                 Nails  (“unghie”  −  pronunciate  in  un  certo  modo,  fanno  interiezione  blasfema)  diventano mails
                 (pronunciata  come males,  “maschi”); robe  (“veste”,  pronunciata  come  roba,  elisabettiano  per
                 “puttana”) è tradotto da Alice in cown (anziché gown) e pronunciata come con (l’organo femminile,
                 in francese), mentre foot (“piede”) richiama il francese foutre (“fottere”).

              80 III, v, 6 Il disprezzo del Delfino per “i rimasugli della lussuria dei nostri avi” (dove the emptying, “lo
                 svuotamento”, indica che si è toccato il fondo, si è arrivati alla feccia) sottolinea suo malgrado che i
                 nobili dei due paesi sono della stessa razza (il grosso della nobiltà inglese, Plantageneti in testa, è di
                 origine normanna), e quindi legittima l’idea che quella di Enrico non è un’invasione straniera.

              81 III, v, 14 Il termine nook-shotten (“frastagliata”) è di per sé riduttivo, mentre isle sottolinea il fatto
                 che si tratta di una piccola isola. Il Connestabile rincara la dose con i luoghi comuni (anche allora)
                 sulla tetraggine del clima inglese, il sangue freddo degli inglesi (e per converso, il sangue caldo dei
                 latini), la superiorità del vino sulla birra (barley broth, «brodaglia d’orzo»). Il contrasto di freddo e
                 caldo anima tutta la sua brillante retorica.
              82 III, v, 33 Il “ballo della volta”, tradotto con “giravolta” per dare l’idea della fuga di fronte al nemico,
                 è danza d’origine italiana, che comporta giravolte e volteggi. Il coranto (“corrente”) comporta veloci
                 movimenti di fuga. La recriminazione culmina nell’ovvio doppio senso sul danzare e l’“alzare i tacchi”.

              83 III, v, 52 L’immagine delle Alpi che “sputano e scaricano il loro catarro” è ripresa da un verso di
                 poeta  minore  latino  («Juppiter  hybernas  cana  nive  conspuit  Alpes»)  considerato  infelice  da
                 Quintiliano e irriso da Orazio. Può darsi che Shakespeare abbia voluto dare un tocco di goffaggine al
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