Page 1456 - Shakespeare - Vol. 2
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Al di là della figura storica di un re mitizzato, il poeta deve confrontarsi anche
          con  la  concezione  del  Re  Ideale,  il  modello,  lo  «specchio»,  appunto,  nella
          terminologia  rinascimentale.  Concezione  che  la  cultura  elisabettiana  ha
          ereditato  dal  mondo  classico  come  dalla  tradizione  medievale  e  cristiana.

          Tutta la trattatistica cinquecentesca, a cominciare da Erasmo (la cui Institutio
          Principis  risale  al  1516),  tende  a  definire  e  fissare  i  caratteri  del  Principe
          Ideale.  Il  quale  dovrà  essere  innanzitutto  un  principe  cristiano,  dedito  agli
          studi e versato in questioni teologiche. Inflessibilmente giusto, ma incline alla

          clemenza  e  alieno  dalla  vendetta  −  ché  la  vera  giustizia  dev’essere
          impersonale.  Capace  di  controllare  ogni  passione  privata  e  di  trattare
          affabilmente i suoi sudditi, anche i più umili, di circondarsi di uomini saggi, e
          bandire  parassiti  e  adulatori.  Il  suo  Stato  sarà  come  un  alveare,  società

          mirabilmente  strutturata,  operosa  e  disciplinata:  egli  dovrà  consolidarlo  e
          difenderlo,  e  su  di  esso  vegliare  giorno  e  notte.  Dovrà  essere  consapevole
          della  caducità  del  fasto  regale.  Dovrà  portare  su  di  sé,  intera,  la
          responsabilità  della  guerra  e  della  pace,  ed  evitare,  in  guerra,  di  spargere

          sangue innocente.
          Shakespeare − poeta dell’uomo qual è, non quale dovrebbe essere − si lascia
          docilmente  guidare,  nel  delineare  la  figura  di  Enrico,  da  chi  in  fatto  di
          perfezione  umana  ne  sa  più  di  lui,  e  segue  da  vicino  le  enunciazioni  dei

          trattatisti, soprattutto Erasmo, e la Institution and First Beginning of Christian
          Princes di Chelidonio, tradotta in inglese nel 1571. Esistono molte e precise
          corrispondenze,  nel  dramma,  fra  tali  enunciazioni  e  l’azione  pratica  del
          giovane sovrano: col risultato che a volte il Re parla come un libro stampato,

          e i suoi critici ne definiscono i discorsi come «le dorate espettorazioni di una
          divinità posticcia» (the golden throatings of a hollow God, Mark Van Doren).
          O,  nel  migliore  dei  casi,  per  ostentata  rettitudine  e  accenti  virtuosi,
          paragonano il nostro eroe senza conflitti al pio Enea virgiliano, così ligio al

          volere divino (e alla propria missione) da sacrificarvi ogni affetto privato: un
          Cesare sempre pronto a dare a Dio ciò che è di Dio.
          Può darsi che Shakespeare nutra scarso interesse per un Re Ideale, in anni in
          cui la sua creatività si sta già misurando con i temi e i conflitti delle prime

          problem  plays  (Giulio  Cesare  andrà  in  scena  in  questo  stesso  anno  1599,
          Troilo e Cressida  nel  1600, Amleto nel 1601). I suoi eroi − Bruto, Troilo, il
          principe  danese  −  avranno  sì,  come  Enrico,  un  alto  senso  dell’onore,  ma
          saranno creature di luci e ombre, tormentati dal dubbio, segnati dal dolore.

          Di Enrico si è invece detto che difetta di spessore umano. Ma se generazioni
          di critici si son divise in due campi, gli ammiratori e i detrattori, vuol dire che
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