Page 1460 - Shakespeare - Vol. 2
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sulla natura dell’uomo politico [...] ossia dell’uomo motivato dal contesto
sociale in cui si trova e dalla posizione che occupa in quel contesto,
indipendentemente dall’ambizione personale (che trasforma Riccardo II e
Macbeth in tiranni) e dalla confusione tra sfera etica e sfera propriamente
politica (che provoca la caduta di Bruto in Giulio Cesare, di Amleto, e anche di
Coriolano). Enrico è l’uomo che sa trovare costantemente argomenti per
giustificare in primo luogo a se stesso (si vedano i suoi monologhi)
comportamenti dettati né dalla sua natura istintuale né da principi etici
assoluti, ma dalla condizione contingente in cui si trova: una condizione di
sovrano che egli ha ereditata e che accetta senza discuterne la legittimità.
Questa sua disposizione mentale è appunto quella che Shakespeare si era
venuto prefigurando nelle due parti di Enrico IV, ed è la giustificazione finale
del ripudio di Falstaff. Shakespeare ha evitato così la celebrazione dei fasti
della dinastia usurpatrice: ha celebrato in Enrico, invece, la funzione e la
validità del politico come modello di comportamento».
Nessuna virtù o qualità sovrumana, dunque, ma intelligenza e fortuna. Più
che all’ideale di Erasmo, pensiamo al principe del Machiavelli: quel
Machiavelli che amava l’azione, la vita fisica più della parola, ma della parola
sapeva servirsi con suprema efficacia. Equilibrato, sicuro di sé, pronto di
riflessi, capace di tenere a freno passioni impetuose, Enrico è quasi sempre
razionale, e quasi mai prevedibile. Può piacere o meno; e tanto più lo
sapremo apprezzare quanto meno lo troveremo «complesso e ambiguo».
Forse è più saggio lasciarsi sedurre da lui, rinunciando a leggere il dramma in
controluce − come vorrebbero John Arden, H.C. Goddard ed altri − per
ricercarvi una filigrana di consapevoli, «tragiche ironie». Un dramma come
questo esige da noi l’abbandono: non esercizi di raziocinio ci chiede il Coro,
ma voli della fantasia e fervide emozioni. Lasciamo i critici nelle loro
accademie ed accalchiamoci, con gli altri in quell’angusto «O di legno» per
farci incantare dalla magia del teatro, a costo di serbare un’illusione di
troppo. Solo così ritroveremo in Enrico V «quel suo inconfondibile e
indimenticabile carattere di parentesi festiva − sono parole di Gabriele
Baldini −, di vacanza primaverile goduta come fuga dall’assillante premere e
montare dei problemi che, in quegli stessi anni alla svolta del secolo,
concentrano, nella parabola di Shakespeare, i momenti di più intenso, di più
doloroso travaglio morale».
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