Page 1459 - Shakespeare - Vol. 2
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gratifica amici e nemici. Chi si diverte a stare al mondo, chi ama scherzare e
raramente va in collera, difficilmente sarà tacciato di ipocrisia: eppure lo
stesso Enrico aveva previsto anche questo. «Chiunque mi riterrebbe un
autentico ipocrita», afferma, non ancora salito al trono, nella seconda parte
dell’Enrico IV: ma «solo alla fine si vede l’uomo qual è» (Let the end try the
man) . In the perfectness of time, aggiungerà Warwick: «quando verrà il
giorno».
Per molti critici quel giorno non è mai venuto. «Egli è il perfetto ipocrita»,
proclama Gerald Gould: e mai una volta, nella trilogia di cui è al centro, saprà
compiere un atto di generosità che non sia calcolato. E c’è perfino − dulcis in
fundo − chi mette in dubbio il dominio di sé, la salute mentale del
personaggio: come Derek Traversi, che accenna meccanismi di proiezione in
questo re che, con zelo sospetto, ribalta sempre sul nemico la responsabilità
di una violenza che, di fatto, è soltanto sua; o come Honor Matthews, per cui
egli è «un nevrotico che ha deliberatamente soffocato le sue qualità più
oneste e generose senza riuscire del tutto a inibirle»: una mente «oppressa e
divisa da sensi di colpa».
La verità sta nel mezzo − se pure ha senso la ricerca di una verità che non
sia soggettiva. Enrico è un uomo tutt’altro che freddo, ma è vero − come
rileva il grande A.C. Bradley, quando di inconscio non si usava ancora parlare
− che esiste in lui una sorta di diaframma emotivo.
Egli è «affabile e cortese con tutti, da principe; lo è, da re, con chi se lo
merita, e non solo per calcolo politico. Ma non c’è segno in lui di un forte
affetto per alcuno, quale l’affetto che riconosciamo a prima vista in Amleto e
Orazio, Bruno e Cassio e molti altri. Questo in Enrico V non lo troviamo
neppure nel nobile discorso rivolto a Lord Scrope, mentre in Enrico IV
troviamo, credo, genuina simpatia per Falstaff e Poins, ma nulla di più». Il
Bradley coglie poi un altro aspetto di Enrico: «Forse il personaggio più
efficiente di Shakespeare − a meno di opporgli l’Ulisse di Troilo e Cressida».
Tale distacco emotivo, combinato con l’efficienza, ovvero con la capacità di
commisurare i mezzi ai fini e di realizzare questi ultimi, non deve renderci il
personaggio meno attraente: un re non è tenuto a essere attraente (e in
generale i protagonisti dei drammi storici non hanno emozioni genuinamente
private). Deve solo fare il re, e nel modo migliore: sono i risultati, non le
intenzioni, che contano.
E allora ci sembra di poter concludere con Giorgio Melchiori, che nella sua
introduzione al dramma va al nocciolo del problema. Enrico è «personaggio
complesso e ambiguo», «il frutto più maturo della riflessione shakespeariana