Page 1458 - Shakespeare - Vol. 2
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abitudine non in sintonia con esso [...]. Invano ci sforziamo di cogliere in lui
una più intima personalità, dietro a quella di re: non troveremmo nulla [...].
Non c’è nessun Enrico, c’è soltanto un re».
Qualcosa, in Enrico V, continua a eluderci. Lo stesso vigore fisico che traspira
da ogni parola, da ogni suo gesto, non ha mancato di attirargli gli strali di chi
non apprezza lo spirito agonistico. Il primo, storicamente, è William Hazlitt,
critico e polemista liberal che nel 1817 condanna Enrico come aggressore, pur
confessando di trovarlo «attraente», ma solo sul palcoscenico: «una pantera
o un giovane leone» che preferiamo sapere confinato al sicuro, dietro le
sbarre di uno zoo. Per G.B. Shaw − pacifista a oltranza − la popolarità di
Enrico vale quanto quella di «un campione di pugilato». Per il poeta e critico
John Masefield «Enrico V è l’ultimo protagonista banale (common-place) degli
otto drammi». Per W.B. Yeats è una forza della natura, grossolano e
insensibile, nato per governare una società di violenti: Shakespeare si è
divertito a creare in lui «un bell’esemplare di purosangue focoso», anche se −
aggiunge Yeats − «ha narrato la sua storia come del resto ha narrato ogni
altra storia, con tragica ironia».
Sulla «tragica ironia» del dramma ci sarebbe molto da dire, e d’altronde i
detrattori di Enrico − se così possiamo chiamarli − hanno sviluppato questa
intuizione yeatsiana nelle sue sfaccettature; e nessuno più brillantemente del
già citato H.C. Goddard. Se pochi, fra questi critici, mostrano di apprezzare la
vitalità fisica del protagonista, a maggior ragione rifiutano di riconoscergli la
più accattivante e palese delle sue qualità umane: la sincerità o − per
l’esattezza − l’insofferenza per l’insincerità altrui, per tutto ciò che è humbug,
orpello, apparenza.
Per ogni forma di insincerità − scrive il vittoriano Edward Dowden − Enrico
dimostra un sovrano disprezzo: per i comportamenti insinceri, la gloria
posticcia, il falso eroismo, la religiosità ipocrita, i simulacri dell’amore. «La
realtà delle cose è così preziosa da non aver bisogno di abbellimenti». Invece
di investire ogni sua energia nel consolidare il potere acquisito − come aveva
fatto suo padre − Enrico «lascia che il sangue gli pulsi liberamente nelle vene
e faccia impetuosamente sbocciare la sua gioia di vivere [...]. Un uomo dai
piedi saldamente piantati sulla terra e dagli obiettivi affatto concreti, può con
fiducia lasciarsi alle spalle gran parte della prudenza e delle convenzioni di
questo mondo».
Questo senso di libertà − una libertà conquistata a caro prezzo − con la self-
confidence che ne deriva, la giovinezza del Re, il suo razionale realismo
pratico, è poi alla base degli umori scherzosi, del banter sardonico di cui egli