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abitudine non in sintonia con esso [...]. Invano ci sforziamo di cogliere in lui
          una più intima personalità, dietro a quella di re: non troveremmo nulla [...].
          Non c’è nessun Enrico, c’è soltanto un re».
          Qualcosa, in Enrico V, continua a eluderci. Lo stesso vigore fisico che traspira

          da ogni parola, da ogni suo gesto, non ha mancato di attirargli gli strali di chi
          non apprezza lo spirito agonistico. Il primo, storicamente, è William Hazlitt,
          critico e polemista liberal che nel 1817 condanna Enrico come aggressore, pur
          confessando di trovarlo «attraente», ma solo sul palcoscenico: «una pantera

          o  un  giovane  leone»  che  preferiamo  sapere  confinato  al  sicuro,  dietro  le
          sbarre  di  uno  zoo.  Per  G.B.  Shaw  −  pacifista  a  oltranza  −  la  popolarità  di
          Enrico vale quanto quella di «un campione di pugilato». Per il poeta e critico
          John Masefield «Enrico V è l’ultimo protagonista banale (common-place) degli

          otto  drammi».  Per  W.B.  Yeats  è  una  forza  della  natura,  grossolano  e
          insensibile,  nato  per  governare  una  società  di  violenti:  Shakespeare  si  è
          divertito a creare in lui «un bell’esemplare di purosangue focoso», anche se −
          aggiunge Yeats − «ha narrato la sua storia come del resto ha narrato ogni

          altra storia, con tragica ironia».
          Sulla  «tragica  ironia»  del  dramma  ci  sarebbe  molto  da  dire,  e  d’altronde  i
          detrattori di Enrico − se così possiamo chiamarli − hanno sviluppato questa
          intuizione yeatsiana nelle sue sfaccettature; e nessuno più brillantemente del

          già citato H.C. Goddard. Se pochi, fra questi critici, mostrano di apprezzare la
          vitalità fisica del protagonista, a maggior ragione rifiutano di riconoscergli la
          più  accattivante  e  palese  delle  sue  qualità  umane:  la  sincerità  o  −  per
          l’esattezza − l’insofferenza per l’insincerità altrui, per tutto ciò che è humbug,

          orpello, apparenza.
          Per ogni forma di insincerità − scrive il vittoriano Edward Dowden − Enrico
          dimostra  un  sovrano  disprezzo:  per  i  comportamenti  insinceri,  la  gloria
          posticcia,  il  falso  eroismo,  la  religiosità  ipocrita,  i  simulacri  dell’amore.  «La

          realtà delle cose è così preziosa da non aver bisogno di abbellimenti». Invece
          di investire ogni sua energia nel consolidare il potere acquisito − come aveva
          fatto suo padre − Enrico «lascia che il sangue gli pulsi liberamente nelle vene
          e faccia impetuosamente sbocciare la sua gioia di vivere [...]. Un uomo dai

          piedi saldamente piantati sulla terra e dagli obiettivi affatto concreti, può con
          fiducia lasciarsi alle spalle gran parte della prudenza e delle convenzioni di
          questo mondo».
          Questo senso di libertà − una libertà conquistata a caro prezzo − con la self-

          confidence  che  ne  deriva,  la  giovinezza  del  Re,  il  suo  razionale  realismo
          pratico, è poi alla base degli umori scherzosi, del banter sardonico di cui egli
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