Page 1453 - Shakespeare - Vol. 2
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semplice: prendendoli di petto.
Primo problema: che trama dare a una vicenda sin troppo nota? Quella
robusta e lineare della Storia con la S maiuscola. Il Re si risolve a dichiarare
una guerra forse evitabile, ma giustificata come inevitabile perché da tutti
voluta (atto I); sventa sul nascere la congiura del Conte di Cambridge e dei
suoi accoliti, ristabilendo l’unità politica del paese (atto II); sbarca in
Normandia alla testa di un imponente corpo di spedizione, e induce alla resa
la piazzaforte di Harfleur dopo tenace assedio (atto III); guida le sue forze,
decimate e logorate dalla dura campagna, alla vittoria su soverchianti forze
francesi (atto IV), e infine impalma la principessa di Francia, nel quadro di un
trattato di pace che porta all’unione personale dei due regni di Francia e
Inghilterra, di cui egli diventa unico sovrano (atto V). Su questo percorso
lineare − quello di una corsa a ostacoli − Shakespeare innesta il consueto,
vivace contrappunto di scene di commedia: le disavventure degli ex compagni
di baldorie di Enrico, precedute dallo struggente resoconto della morte di
Falstaff (e queste costituiscono, di per sé, una trama secondaria); i
battibecchi in vernacolo dei quattro capitani, le vanterie dei nobili di Francia; i
trabocchetti della lingua francese − in quelli che si definiscono the
international episodes o, per dirla con Giorgio Melchiori, la «nuova commedia
del linguaggio».
Secondo problema: come salvare il mito, evitando la pura e semplice
celebrazione? Enrico è pur sempre figlio di Henry Bolingbroke, colui che ha
deposto e mandato a morte Riccardo II, l’unto del Signore. E poiché la
storiografia del periodo Tudor − di cui il poeta si fa interprete − mira sempre
e comunque a riaffermare il principio di legittimità e a esorcizzare la memoria
di ogni precedente conflitto dinastico, Shakespeare si muove su un terreno
minato: tanto più che sia Elisabetta Tudor che Giacomo Stuart, suo
successore designato, sono ben consapevoli delle possibilità eversive del
mezzo teatrale. La soluzione è di una semplicità disarmante: Shakespeare
mette in bocca al suo eroe, nella notte che precede la battaglia,
un’angosciata preghiera, e ce lo mostra, per una volta − una volta sola! −
tormentato e vulnerabile, in preda al rimorso (IV, I); e infine suggella il
dramma con un Epilogo che sottolinea il carattere effimero delle famous
victories di Enrico, e che potrebbe avere persino un sapore beffardo: «Vedete,
signori, come la farina del diavolo va tutta in crusca...».
Terzo problema: come infondere nel dramma la dimensione epica? Si tratta di
salvare la funzione sostanziale della poesia epica − incoraggiare la nobiltà
del sentire con l’esempio di uomini di tempra eroica − e al tempo stesso di