Page 70 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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CAPITOLO XV









     Per valutare gli straordinari pregi dell’ipotesi di Parmenide si deve rivolgere lo sguardo agli
     avversari  degli  Eleati.  Un  grande  imbarazzo  –  al  quale  Parmenide  era  sfuggito  –  attendeva

     Anassagora, insieme a tutti coloro che credevano a una pluralità di sostanze, nella domanda:
     «quante sono le sostanze?» Anassagora saltò, chiuse gli occhi e rispose: «infinite». In tale modo
     egli  aveva  perlomeno  sorvolato  sulla  dimostrazione  incredibilmente  faticosa  di  un  numero
     determinato di materie elementari. Dato che queste sostanze numericamente infinite dovrebbero

     esistere sin dall’eternità, senza alcun accrescimento né mutamento, in quell’ipotesi si dava la
     contraddizione  di  un’infinità  che  andava  pensata  come  chiusa  e  compiuta.  In  breve:  la
     molteplicità, il movimento, l’infinità, messe in fuga da Parmenide per mezzo dello stupefacente
     principio  dell’essere  unico,  rientrarono  dall’esilio  e  scagliarono  le  loro  frecce  contro  gli

     avversari  di  Parmenide,  procurando  loro  ferite  insanabili.  Tali  avversari  evidentemente  non
     avevano una chiara coscienza della forza terribile di quei pensieri eleatici: «non può esserci
     tempo,  né  movimento,  né  spazio,  perché  tutto  ciò  noi  possiamo  pensarlo  unicamente  come
     infinito  e,  precisamente,  da  un  lato  come  infinitamente  grande,  dall’altro  come  infinitamente

     divisibile: ma ogni infinito non possiede alcun essere, non esiste». Cosa che nessuno mette in
     dubbio, qualora intenda in modo rigoroso il senso della parola ’essere’ e consideri impossibile
     l’esistenza di qualcosa di contraddittorio, ad esempio di un’infinità portata a compimento. Ma
     se è proprio la realtà a mostrarci ogni cosa unicamente nella forma di infinità compiuta, allora

     salta agli occhi che tale realtà contraddice se stessa, e dunque non possiede alcuna vera realtà.
     Ma  se  quegli  avversari  volessero  obiettare:  «nel  vostro  stesso  pensiero  si  dà  però  una
     successione, dunque anch’esso potrebbe non essere reale e allora per mezzo di esso non sarebbe
     possibile dimostrare alcunché», forse Parmenide fornirebbe una risposta simile a quella data da

     Kant in un caso analogo, in risposta a una medesima obiezione: «senza dubbio posso dire che le
     mie rappresentazioni si susseguono l’una dopo l’altra, ma ciò significa soltanto che noi siamo
     coscienti di esse come in una successione temporale, cioè secondo la forma del senso interno. Il
     tempo non è perciò qualcosa in se stesso, né una determinazione che si aggiunga obiettivamente

     alle cose». Si dovrebbe dunque distinguere tra il pensiero puro, che è senza tempo come l’unico
     essere  parmenideo,  e  la  coscienza  di  questo  pensiero,  la  quale  traduce  già  il  pensiero  nella
     forma dell’apparenza, dunque della successione, della pluralità e del movimento. È verosimile
     pensare  che  Parmenide  si  sarebbe  servito  di  questa  scappatoia:  si  potrebbe  d’altronde

     obiettargli quel che A. Spir obietta a Kant: «Ora, in primo luogo è chiaro che non posso sapere
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