Page 60 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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CAPITOLO XI









     E questo era un Greco, la cui fioritura è circa contemporanea allo scoppio della rivoluzione
     ionica.  A  un  greco  era  a  quel  tempo  possibile  fuggire  dalla  realtà  sovraccarica  come  da  un

     mero,  fantasmagorico  schematismo  dell’immaginazione,  per  rifugiarsi  non  già,  come  Platone,
     nella regione delle idee eterne, nell’officina dei costruttori del mondo, per deliziare l’occhio tra
     le immacolate e indistruttibili forme primordiali delle cose, bensì nella rigida quiete mortale del
     concetto  più  freddo,  che  peraltro  non  dice  nulla:  quello  dell’essere.  Ci  guarderemo  bene

     dall’interpretare un fatto così singolare in base a false analogie. Quella fuga non era una fuga dal
     mondo nel senso dei filosofi indiani: difatti, essa non era indotta dalla profonda convinzione
     religiosa  della  corruzione,  caducità  e  infelicità  dell’esistenza;  quel  fine  ultimo,  la  quiete
     dell’essere, non veniva perseguito come un mistico sentirsi immersi in un’unica, affascinante e

     completamente  appagante  rappresentazione  che  costituisce  invece,  per  l’uomo  volgare,  un
     enigma e uno scandalo. Il pensiero di Parmenide non ha proprio nulla dell’inebriante e oscuro
     profumo indiano, che forse non è del tutto impossibile da percepire in Pitagora ed Empedocle.
     Ciò che, per quest’epoca, risulta sorprendente in tale pensiero è piuttosto proprio l’assenza di

     profumo, di colore, di anima e di forma, la totale mancanza di sangue, religiosità e calore etico,
     ossia il carattere astratto-schematico – in un Greco! –, ma soprattutto la terribile energia con cui
     si aspira a raggiungere la certezza in un’epoca estremamente mobile e fantastica che pensava
     miticamente. «Concedetemi soltanto una certezza, o dèi!», è la preghiera di Parmenide, «e fate

     soltanto che, nel mare dell’incertezza, essa sia una tavola larga abbastanza per distendervisi!
     Tutto ciò che diviene, che fiorisce lussureggiante e policromo, tutto ciò che inganna, stimola,
     vive,  tutto  questo  prendetevelo  pure,  e  datemi  in  cambio  soltanto  una  singola,  povera,  vuota
     certezza!».

       Nella  filosofia  di  Parmenide  si  preannuncia  il  tema  dell’ontologia.  In  nessun  luogo
     l’esperienza gli offriva un essere come lui se lo immaginava ma, dal fatto di poterlo pensare,
     egli  dedusse  che  questo  dovesse  esistere:  una  conclusione  che  riposa  sul  presupposto  di
     possedere  un  organo  della  conoscenza  capace  di  giungere  fino  all’essenza  delle  cose  e

     indipendente dall’esperienza. Secondo Parmenide, il materiale del nostro pensiero non è affatto
     presente nell’intuizione, bensì proviene da qualche altra parte, da un mondo extrasensibile, al
     quale  abbiamo  accesso  diretto  tramite  il  pensiero.  Ora,  contro  ogni  analogo  procedimento
     deduttivo,  Aristotele  ha  già  fatto  valere  l’argomentazione  che  l’esistenza  non  appartiene

     all’essenza, ossia che l’esistere non appartiene mai alla natura della cosa. Proprio per questa
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