Page 61 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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ragione non è affatto lecito dedurre dal concetto di «essere» – la cui essentia è appunto
unicamente l’essere – una existentia dell’essere. La verità logica dell’opposizione tra «essere»
e «non essere» è perfettamente vuota se non può essere dato l’oggetto che ne è fondamento,
ossia l’intuizione dalla quale questa opposizione è ricavata per astrazione. Se non si risale
all’intuizione, tale opposizione è soltanto un gioco di rappresentazioni con cui, in effetti, non
viene conosciuto nulla. Perché il criterio meramente logico della verità, come insegna Kant,
vale a dire la concordanza di una conoscenza con le leggi universali e formali dell’intelletto e
della ragione, è senza dubbio la condicio sine qua non, quindi la condizione negativa di ogni
verità: ma la logica non può spingersi oltre, e l’errore che concerne non la forma, bensì il
contenuto, la logica non ha pietra di paragone per scoprirlo. Non appena si cerca però il
contenuto della verità logica dell’opposizione: «ciò che è, è; ciò che non è, non è», ecco che
effettivamente non si trova neppure una singola realtà che corrisponda rigorosamente a
quell’opposizione. Di un albero posso dire tanto che «è», in confronto a tutte le altre cose,
quanto che «sarà», in confronto a se stesso in un altro momento e, infine, anche che «non è», ad
esempio che «non è ancora un albero», fintanto che considero l’arbusto. Le parole sono soltanto
simboli per indicare le relazioni delle cose tra di loro e con noi, e in nessun punto toccano la
verità assoluta: persino la parola «essere» designa soltanto la relazione più generale, che
collega tutte le cose, proprio come la parola «non essere». Ma se non si può comprovare
l’esistenza delle cose stesse, allora la relazione delle cose tra di loro, il cosiddetto «essere» e
«non essere», non rappresenta per noi alcun passo avanti verso la terra della verità. Attraverso
le parole e i concetti noi non giungeremo mai dietro il muro delle relazioni, per così dire in un
qualche favoloso fondamento originario delle cose, e persino nelle forme pure della sensibilità
e dell’intelletto, nello spazio, nel tempo e nella causalità, noi non acquisiamo nulla che somigli
a una veritas aeterna. Per il soggetto è assolutamente impossibile riuscire a vedere e conoscere
qualcosa al di là di se stesso, tanto impossibile che conoscere ed essere sono, tra tutte le sfere,
quelle maggiormente in contraddizione l’una con l’altra. E se Parmenide, nell’ingenuità
ignorante della critica dell’intelletto di quel tempo, potè credere di giungere dal concetto
eternamente soggettivo ad un essere-in-sé, oggi invece, dopo Kant, è con sfacciata ignoranza che
qui e là, e soprattutto tra teologi male istruiti che vogliono giocare ai filosofi, viene presentato
quale compito della filosofia «il cogliere l’assoluto con la coscienza»; ad esempio nella forma:
«l’assoluto è già presente, altrimenti come potremmo cercarlo?», come si è espresso Hegel, o
nella formulazione di Beneke: «l’essere in qualche modo deve essere dato, in qualche modo
deve essere per noi raggiungibile, perché altrimenti non potremmo neppure avere il concetto
dell’essere». Il concetto dell’essere! Come se già nell’etimologia della parola esso non
rivelasse l’origine più povera ed empirica! Esse difatti significa in fondo soltanto «respirare»:
impiegandolo in riferimento a tutte le altre cose, l’uomo traspone la propria convinzione di
respirare e di vivere – attraverso una metafora, cioè attraverso qualche cosa di illogico – alle
altre cose e concepisce la loro esistenza, per analogia con l’uomo, come un respirare. Ben
presto il significato originale della parola sbiadisce: ma ne rimane pur sempre quanto basta
perché l’uomo si rappresenti l’esistenza delle altre cose per analogia con la propria esistenza,
dunque in modo antropomorfo e, in ogni caso, attraverso una trasposizione non logica. Il