Page 58 - Nietzsche - Su verità e menzogna
P. 58
aveva eguali. D’altronde Senofane non si ritirò affatto nella solitudine, come fecero Eraclito e
Platone, bensì si presentò apertamente davanti a quel pubblico di cui aveva stigmatizzato – con
ira e scherno, ma non come l’attaccabrighe Tersite – l’entusiastica ammirazione per Omero,
l’appassionata tendenza a onorare le manifestazioni sportive, l’adorazione di pietre modellate
secondo sembianze umane. Con Senofane la libertà dell’individuo giunge al culmine e, in questa
pressoché illimitata evasione da tutte le convenzioni, egli risulta assai più strettamente affine a
Parmenide che non in quell’unità divina ultima da lui contemplata in uno degli stati visionari
degni di quel secolo: con l’unico Essere di Parmenide, tale unità ha a malapena in comune
l’espressione e il nome, ma certamente non l’origine.
Al contrario, Parmenide scoprì la dottrina dell’essere nello stato d’animo opposto. In quel
giorno e in quello stato egli esaminò i suoi opposti, agenti l’uno sull’altro, la cui brama e il cui
odio costituiscono il mondo e il divenire, ossia l’essente e il non essente, le qualità positive e
quelle negative, ed improvvisamente si fermò diffidente sul concetto di qualità negativa, ossia
sul concetto di non essente.
Qualcosa che non è, può essere una qualità? Oppure, ponendo la domanda in modo più
radicale: qualcosa che non è, può forse essere? L’unica forma di conoscenza alla quale
accordiamo subito una fiducia incondizionata e la cui negazione equivale alla pazzia è infatti la
tautologia A = A. Ed è proprio questa conoscenza tautologica a gridare implacabilmente a
Parmenide: «ciò che non è, non è. Ciò che è, è!». Improvvisamente egli sentì gravare sulla
propria vita un enorme peccato contro la logica: egli aveva sempre creduto, senza riflettere, che
esistessero qualità negative e, più in generale, il non essere, il che significa, espresso
formalmente: A = non A. Cosa che però può essere sostenuta soltanto con una completa
perversità di pensiero. Certamente, come si rese conto, tutta la grande moltitudine degli uomini
giudica con la medesima perversità: egli allora aveva soltanto preso parte all’universale delitto
contro la logica. Ma lo stesso istante che gli imputa questo delitto, lo illumina anche con la
gloria di una scoperta: egli ha scoperto un principio che è la chiave per il segreto del mondo,
lontano da ogni follia umana, e ora egli scende, sulla scorta della ferma e terribile verità
tautologica, fin nell’abisso delle cose.
Su questa strada incontra Eraclito – incontro sfortunato! –. Per Parmenide, che tanto aveva a
cuore la rigorosa separazione tra essere e non essere, doveva risultare profondamente odioso il
gioco antinomico di Eraclito: proposizioni come «noi siamo e, allo stesso tempo, non siamo»,
«essere e non essere sono la medesima cosa e, allo stesso tempo, non la medesima»,
proposizioni per mezzo di cui ridiventava torbido e inestricabile quanto egli aveva in
precedenza chiarificato e districato, lo fecero infuriare. «Ne ho abbastanza degli uomini»,
gridava, «che sembrano avere due teste e tuttavia non sanno niente! Per loro tutto scorre, anche
il loro pensiero! Guardano stolidamente le cose, ma devono essere ciechi e sordi per mescolare
così gli opposti l’uno con l’altro». La dissennatezza della massa, glorificata con ludiche
antinomie e lodata come vertice di ogni conoscenza, era per lui un’esperienza dolorosa e
incomprensibile.
Parmenide si immerse allora nel bagno freddo delle sue terribili astrazioni. Ciò che veramente
esiste deve essere situato in un eterno presente, del quale non si possa dire «era» o «sarà». Ciò