Page 59 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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che  è,  non  può  essere  divenuto:  perché  da  dove  sarebbe  sorto?  Dal  non  essente?  Ma  il  non
     essente non è e non può produrre alcunché. Dall’essente? Questo dunque non produrrebbe altro
     che  se  stesso.  Le  cose  stanno  allo  stesso  modo  riguardo  al  perire:  esso  è  tanto  impossibile

     quanto il divenire, quanto ogni modificarsi, quanto ogni crescere e diminuire. In generale vale il
     principio: tutto ciò di cui si può dire «era» o «sarà» non è, mentre di ciò che è, non si potrà dire
     che «non è». Ciò che è, è indivisibile, perché dove mai potrà essere trovata una forza capace di
     dividerlo?  Esso  è  immobile,  perché  dove  mai  dovrebbe  andare?  Non  può  essere  né

     infinitamente  grande,  né  infinitamente  piccolo:  difatti  è  compiuto,  e  un’infinità  data
     compiutamente sarebbe una contraddizione. Così esso si libra circoscritto, compiuto, immobile,
     in equilibrio in ogni sua parte e ugualmente perfetto in ogni suo punto come una sfera, ma non
     situato  nello  spazio:  perché  altrimenti  questo  spazio  sarebbe  un  secondo  essente.  Ma  non

     possono darsi svariati essenti, poiché in tal caso dovrebbe intervenire a dividerli qualcosa che
     non è: ipotesi, questa, che si autosopprime. Così c’è soltanto l’eterna unità.
       Ma  quando  Parmenide  rivolse  nuovamente  il  suo  sguardo  al  mondo  del  divenire,  la  cui
     esistenza egli aveva in precedenza cercato di cogliere con ragionamenti tanto sensati, s’incollerì

     con  il  suo  occhio,  perché  vedeva  il  divenire,  e  con  il  suo  orecchio,  perché  lo  udiva.  «Non
     seguite  soltanto  lo  stupido  occhio»,  suonava  il  suo  imperativo,  «e  neppure  l’orecchio
     rimbombante o la lingua, bensì esaminate le cose unicamente con la forza del pensiero!». In
     questo  modo  egli  portò  a  termine  la  prima  critica  dell’apparato  conoscitivo,  estremamente

     importante sebbene ancora tanto inadeguata e fatale nelle sue conseguenze: pensando i sensi e la
     capacità di astrazione, ossia la ragione, come separati l’uno dall’altro, vale a dire come se si
     trattasse  di  due  distinte  facoltà,  egli  ha  fatto  a  pezzi  l’intelletto  stesso  e  incoraggiato  quella
     separazione totalmente erronea di «spirito» e «corpo» che, specialmente a partire da Platone,

     grava come una maledizione sulla filosofia. Tutte le percezioni sensibili, valuta Parmenide, non
     forniscono  altro  che  illusioni;  e  la  loro  illusione  principale  consiste  appunto  nell’indurci  a
     credere che esista anche ciò che non è, ossia che anche il divenire abbia un essere. Tutta quella
     molteplicità  e  ricchezza  di  colori  del  mondo  quale  è  conosciuto  mediante  l’esperienza,  il

     mutamento delle sue qualità, l’ordine del suo alto e basso, vengono gettati via senza pietà come
     mera apparenza e illusione: da essi non si può imparare nulla. È dunque tutta fatica sprecata
     quella impiegata con questo mondo inventato, assolutamente nullo e, per così dire, ottenuto dai
     sensi attraverso l’inganno. Chi lo giudica nel complesso, così come ha fatto Parmenide, cessa

     con  ciò  di  essere  uno  scienziato  della  natura  nel  dettaglio:  il  suo  interessamento  verso  i
     fenomeni si dissecca e addirittura si sviluppa un odio a causa dell’impossibilità di liberarsi da
     questo eterno inganno dei sensi. La verità dovrà ormai risiedere soltanto negli universali più
     scoloriti e rarefatti, nei gusci vuoti delle parole più indeterminate, come fosse avvolta in un

     bozzolo di ragnatele: e accanto a una «verità» siffatta siede il filosofo, anch’egli ormai esangue
     come un’astrazione e circondato da formule come da una ragnatela. Ma il ragno vuole il sangue
     delle sua vittime, mentre il filosofo parmenideo è proprio il sangue delle sue vittime che odia, il
     sangue della conoscenza empirica da lui offerta in sacrificio.
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