Page 43 - Nietzsche - Su verità e menzogna
P. 43
CAPITOLO V
Nel bel mezzo di questa notte mistica, nella quale era avviluppato il problema del divenire
sollevato da Anassimandro, sopraggiunse Eraclito di Efeso, illuminando la notte con un lampo
divino. «Io contemplo il divenire», esclamò, «e nessuno è stato ad osservare tanto attentamente
quanto me questa eterna onda e ritmo delle cose. E che cosa ho visto? Conformità a leggi,
certezze infallibili, percorsi sempre uguali della giustizia, Erinni che condannano ogni
trasgressione delle leggi: ho visto il mondo intero quale spettacolo di una giustizia dominatrice
e di demoniche, onnipresenti forze naturali poste al suo servizio. Non ho contemplato la
punizione di ciò che è divenuto, bensì la giustificazione del divenire. Quando mai il sacrilegio,
la caduta, si sono rivelati in forme perenni, in leggi rispettate santamente? Dove domina
l’ingiustizia, domina anche l’arbitrio, il disordine, l’assenza di leggi, la contraddizione; ma
dove invece regnano unicamente la legge e la figlia di Zeus, Dike, proprio come in questo
mondo, come potrebbe esistere la sfera della colpa, dell’espiazione, della condanna e, per così
dire, il patibolo di tutti i condannati?».
Eraclito ricavò da questa intuizione due negazioni connesse, le quali possono essere portate in
piena luce soltanto per mezzo di un confronto con le dottrine del suo predecessore. Innanzitutto
Eraclito negò la distinzione che Anassimandro era stato costretto ad ipotizzare, ossia quella tra
due mondi totalmente diversi: egli non separò più il mondo fisico da quello metafisico, il regno
delle qualità determinate da quello di un’indefinibile indeterminatezza. Dopo questo primo
passo, Eraclito non potè trattenersi da una negazione di gran lunga più audace: egli negò in
generale l’essere. Quest’unico mondo che da lui veniva conservato – protetto da eterne leggi
non scritte, fluente e rifluente al bronzeo rintocco del ritmo – non mostra in alcun luogo una
permanenza, un’indistruttibilità, un baluardo che resista alla corrente. Più forte di
Anassimandro, Eraclito esclama: «Non vedo altro che divenire. Non lasciatevi ingannare!
Dipende dalla vostra vista corta e non già dall’essenza delle cose se, in qualche direzione,
credete di avvistare la terraferma in questo mare del divenire e del perire. Voi usate nomi per le
cose come se queste avessero una durata fissa: ma persino la corrente nella quale vi immergete
per la seconda volta non è più la stessa di quella in cui vi siete immersi in precedenza».
Come sua regale proprietà, Eraclito possiede una suprema forza di rappresentazione intuitiva,
mentre si mostra invece freddo, insensibile, addirittura ostile verso gli altri modi di
rappresentazione quali sono dispiegati nei concetti e nelle combinazioni logiche, ossia verso la
ragione stessa. Sembra provare piacere quando può contraddire quest’ultima con una verità