Page 41 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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siano percepibili qualità determinate, possiamo anche profetizzare, in base ad una schiacciante
prova d’esperienza, la loro fine. Un essere che possieda qualità determinate e sia costituito da
queste, non potrà dunque mai essere origine e principio delle cose: ciò che veramente è,
concluse Anassimandro, non può possedere alcuna qualità determinata, poiché altrimenti
avrebbe avuto un’origine e dovrebbe infine perire, come tutte le altre cose. Affinché il divenire
non cessi, l’essere originario deve essere indeterminato. L’immortalità ed eternità dell’essere
originario non risiedono in un’infinità e inesauribilità – come generalmente ipotizzano gli
interpreti di Anassimandro – bensì nel fatto che questo essere originario è privo delle qualità
determinate che conducono alla morte: questa è anche la ragion per cui viene chiamato
«l’indeterminato». L’essere originario così denominato si eleva al di sopra del divenire e,
proprio per questo, può farsi garante dell’eternità e del libero corso del divenire. La suprema
unità di quell’«indeterminato» che è il grembo materno di tutte le cose può naturalmente essere
designata dall’uomo solo negativamente, come qualcosa cui non si può attribuire alcun predicato
tratto dal presente mondo del divenire e che perciò potrebbe collocarsi sullo stesso piano della
«cosa in sé» kantiana.
Chi voglia continuare a disputare su quale natura sia propria a una siffatta materia primordiale,
se essa sia qualcosa di intermedio tra aria e acqua, o forse tra aria e fuoco, non ha certamente
compreso il nostro filosofo: cosa che può dirsi anche di quanti si domandino seriamente se
Anassimandro abbia pensato la sua materia originaria come una mescolanza di tutti i materiali
esistenti. Dobbiamo piuttosto dirigere il nostro sguardo laddove ci è possibile apprendere che
Anassimandro trattava la questione sull’origine di questo mondo in un modo che non era già più
puramente fisico, ossia dobbiamo dirigerlo su quella lapidaria sentenza introdotta in
precedenza. Contemplando nella molteplicità delle cose venute all’esistenza una somma di
ingiustizie da espiare, egli fu il primo tra i Greci ad aver afferrato con piglio ardito il bandolo
del più profondo problema etico. Come può perire qualcosa che ha diritto all’esistenza? Qual è
l’origine di quell’incessante divenire e generare, di quell’espressione di smorfia dolorosa sul
volto della natura, di quell’infinito lamento funebre in tutti i domini dell’esistente? Fuggendo da
questo mondo di ingiustizia, di impudente defezione dall’originaria unità delle cose,
Anassimandro cerca riparo in una roccaforte metafisica. Affacciandosi dai bastioni di questa
roccaforte egli lascia il suo sguardo spaziare in lontananza e, dopo un pensoso silenzio, rivolge
infine a tutti gli esseri la domanda: che valore ha la vostra esistenza? E se non ne ha alcuno,
perché esistete? È per colpa vostra, lo vedo, che vi trattenete in questa esistenza. Dovrete
espiare questa colpa con la morte. Guardate come appassisce la vostra terra! I mari si ritirano e
si prosciugano, i fossili marini sui monti vi mostrano quanto già si siano asciugati; il fuoco sta
già distruggendo il vostro mondo, che infine scomparirà tra la polvere ed il fumo. Un siffatto
mondo della caducità si ricostituirà però sempre di nuovo: chi potrà mai redimervi dalla
maledizione del divenire?
Un uomo che poneva questioni siffatte e il cui pensiero, librandosi in alto, lacerava
continuamente i lacci dell’empirico per subito slanciarsi verso il supremo mondo sopralunare,
non poteva certo gradire un modo di vita qualunque. Siamo propensi a credere alla leggenda
secondo la quale Anassimandro si sarebbe aggirato in abiti particolarmente solenni e avrebbe