Page 42 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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mostrato un orgoglio veramente tragico nei gesti e nelle abitudini di vita. Egli viveva nello
stesso modo in cui scriveva: parlava con la stessa solennità con cui vestiva, alzava la mano e
posava il piede come se questa esistenza fosse una tragedia nella quale egli fosse nato per
recitarvi come eroe. In tutto questo egli fu il grande modello di Empedocle. I suoi concittadini lo
elessero per guidare una colonia di emigrazione, forse furono contenti di poter onorarlo e, allo
stesso tempo, liberarsene. Anche il suo pensiero emigrò e fondò colonie: a Efeso e ad Elea non
si riusciva a farne a meno e, sebbene non si potesse decidere di arrestarsi dove questi era
giunto, si era tuttavia consapevoli di essere stati condotti da lui fino al punto dal quale ci si
accingeva ora a procedere innanzi.
Talete mostra il bisogno di semplificare il regno della molteplicità e di ridurlo ad un semplice
sviluppo o travestimento dell’unica qualità presente, l’acqua. Anassimando lo supera
compiendo due passi ulteriori. Egli si chiede: «ma se esiste un’unità eterna, com’è possibile
allora la pluralità?», e ricava la risposta dal carattere contraddittorio di questa pluralità, che
consuma e nega se stessa. L’esistenza stessa diventa per lui un fenomeno morale: essa non è
giustificata, bensì sconta continuamente la propria pena con la morte. Ed è allora che gli viene
in mente: «ma perché mai, allora, tutto ciò che diviene non è già perito da lungo tempo, dato che
è ormai trascorsa un’infinità di tempo? Perché il flusso del divenire sempre si rinnova?». Posto
dinnanzi a questa domanda, egli trova una via di fuga unicamente facendo ricorso a possibilità
mistiche: l’eterno divenire può avere la propria origine soltanto nell’eterno essere; le
condizioni che rendono possibile l’abbandono di quell’essere per cadere in un divenire
dominato dall’ingiustizia sono sempre le stesse; la costellazione delle cose è ormai disposta in
modo tale che non si riesce a vedere una fine di quello scaturire degli esseri singoli dal grembo
dell’«indeterminato». Anassimandro si arrestò a questo punto: rimase cioè avvolto in quelle
ombre profonde che, come spettri giganteschi, si stendevano sui monti di una siffatta
considerazione del mondo. Quanto più ci si voleva accostare al problema di come, per una
caduta, il determinato possa sorgere dall’indeterminato, il temporale dall’eterno, l’ingiustizia
dal giusto, tanto più fonda diventava la notte.