Page 470 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
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degnavano di servirsene. Una breve sintesi delle critiche iniziali alle scoperte
telescopiche di Galileo è reperibile in A. Beltrán, 1983, pp. 67-82.
145 «È più difficile accrescere l’accidente al di là della misura del soggetto, che non
accrescere il soggetto senza l’accidente. Pertanto, Copernico si comporta con maggior
verosimiglianza, nell’ampliare l’orbe delle stelle fisse togliendogli il moto, di quanto
faccia Tolomeo, che accresce il moto dell’orbe delle stelle fisse con immensa velocità».
Drake fa notare che il passo è un’attenuazione della critica più pungente di Keplero
esposta nel De stella nova in pede Serpentarii, Praga, 606, p. 86.
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Si notino la gravità e importanza di questa affermazione. Il fatto che essa si presenti
ammantata di rigore logico non riesce a nascondere la sua audacia se teniamo conto
delle limitazioni alle quali Galileo era costretto dall’ordine papale. È opportuno
ricordare che, alla fine del XVI secolo, il matematico noto come Ursus aveva proposto
un sistema identico a quello di Tycho Brahe, con la differenza che attribuiva alla Terra
centrale un moto di rotazione diurna. Poco importa qui se si ispirò Copernico o plagiò
Tycho, o le due cose insieme. Sarebbe invece opportuno stabilire che cosa si intende per
moto della Terra (se unico o più di uno) e chiarire se in questo contesto si debba
intendere per posizione copernicana e tolemaica soltanto la rispettiva presa di posizione
circa il moto diurno. Ma, anche ammettendo che questo punto di vista fosse
impeccabile, soprattutto se è come Galileo lo dà per assodato, il suo sarebbe un
atteggiamento estremamente temerario. Con questo punto di vista, infatti, Galileo
contravviene in modo chiarissimo all’ordine di trattare della teoria copernicana solo in
modo ipotetico. Certo Galileo non sta affermando che sia verità, però afferma che non è
in alcun caso o una mera ipotesi nel senso di un mero strumento più o meno utile per
salvare i fenomeni, ma senza nessuna pretesa di corrispondere ai fatti, senza nessuna
pretesa di descrive il mondo qual è, in altre parole senza nessun rapporto con la verità o
falsità. Questo è il significato di ipotesi al quale Galileo doveva attenersi secondo i
censori. Pare evidente che qui Galileo cade nella soverchia arditezza di voler «limitare e
coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare», come dice
esplicitamente l’argomento che il papa lo obbliga a includere nel finale del Dialogo
(Opere, VII, p. 488). Ma il punto di vista di Galileo, non soltanto contraddice
espressamente l’argomento papale, cosa non certo da poco, ma si pone anche in
contraddizione con la filosofia della scienza adottata in queste questioni dalla Chiesa.
Sono vere o false solo le teorie che si occupano del mondo, ma nella filosofia
fenomenistica adottata dalla Chiesa le teorie astronomiche non sono tali, bensì meri
espedienti per il calcolo più o meno utili per formulare predizioni ed elaborare un
calendario il più esatto possibile. Tuttavia qui Galileo non mette le teorie geocentriche
ed eliocentriche in rapporto con la loro utilità – peggio ancora, sottomette solo due di
esse, quella accettata dalla Chiesa e l’altra condannata – all’alternativa tra verità o
falsità, sicché la neutralità pretesa dal papa risulta impossibile. Nella prospettiva
filosofica della Chiesa, la neutralità non dipendeva dall’astronomo, bensì dalla natura
delle cose; non era un’astensione o una sospensione del giudizio, bensì un imperativo
epistemologico oggettivo. Non era l’astronomo che benevolmente non si pronunciava
circa la verità o falsità delle teorie, ma erano le teorie che non erano né vere né false e
facevano sì che l’affermazione dell’astronomo non avesse senso. Quella che era stata
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