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intimo negli ultimi anni della sua vita, in parte subito prima e in parte dopo la morte
          della moglie Faustina (176).
          Riforma della dialettica hegeliana (LA), opera di G. Gentile, pubblicata nel 1913.
          Si compone di due parti: la prima è costituita dal saggio che dà il titolo al volume, la

          seconda comprende articoli sul medesimo tema comparsi precedentemente in diverse
          riviste,  tra  cui La critica.  Nella  prima  parte  l’autore  muove  dalla  distinzione  tra
          dialettica  del  «  pensato  »,  nei  cui  limiti  resta  chiuso  l’idealismo  platonico  e
          platonizzante,  e  dialettica  del  «  pensare  »,  caratteristica  del  pensiero  moderno  a
          partire  da  Kant.  Lo  sforzo  di  Hegel  di  cogliere  in  tutta  la  sua  portata  la  nuova
          dialettica  fallisce  tuttavia  per  il  mancato  intendimento  dell’identità  di  pensare  ed
          essere:  la  deduzione  astratta  e  poco  convincente  del  divenire  dall’essere

          indeterminato  e  dal  nulla  è  un  riflesso  di  tale  incertezza  di  fondo.  Solo  se  si
          identifica l’essere con l’atto del pensare il divenire diventa intrinseco all’essere e
          quest’ultimo  si  traduce  senza  residui  nel  proprio  realizzarsi.  L’atto  del  pensiero,
          unità concreta di essere e di non essere, è divenire: questo non sopravviene più come
          una sintesi surrettizia e arbitraria, ma è la stessa realtà in quanto pensiero in atto. A
          questa riforma della dialettica hegeliana, che identifica il momento della sintesi con

          l’atto  del  pensiero  e  vede  entro  questo  perennemente  sorgere  e  comporsi  le
          opposizioni,  era  pervenuto  con  quasi  compiuta  chiarezza  Bertrando  Spaventa  (di
          esso il Gentile riporta in appendice alcuni inediti del 1881). Gli articoli inclusi nella
          seconda parte trattano alcune importanti implicazioni della riforma della dialettica
          (identità  di  storia  e  filosofia,  riduzione  di  tutte  le  categorie  all’unità  dell’atto  del
          pensare, immanentismo assoluto).

          Riso (IL), saggio sul significato del comico (Le rire, essai sur la signification du
          comique),  opera  di  H.  Bergson,  pubblicata  nel  1900.  Il  riso,  fenomeno
          essenzialmente umano e sociale, è un modo di reagire dell’intelligenza dinanzi alla
          passività  di  certi  comportamenti.  Esso  sorge  dal  lieve  scandalo  prodotto  dalla
          goffaggine e dalla rigidità, quando la materia che « ispessisce l’anima » si presenta

          come meccanicità « applicata sul vivente ». In altre parole il riso è un gesto sociale,
          attraverso il quale viene richiamato all’iniziativa libera del vivere chiunque appaia
          dominato dall’automatismo e dalla ripetizione.  Tutte le categorie del comico sono
          riconducibili a questa struttura fondamentale: il comico delle forme (travestimenti,
          gesti automatici, piccoli difetti fisici), il comico di situazione (equivoci, interferenze
          di  serie  estranee,  distrazioni),  il comico  delle  parole  (ripetizioni,  iperboli,  tic
          verbali),  il comico  di  carattere.  Quest’ultimo  argomento,  al  quale  è  dedicata

          l’indagine più ampia ed approfondita, è sviluppato attraverso esemplificazioni tratte
          dal teatro comico, distinto radicalmente da Bergson dagli altri generi letterari. Della
          commedia egli sottolinea la funzione sociale: quella « schiuma frizzante » che è’il
          riso  richiama  l’uomo  alla  aperta  intraprendenza  del  vivere  e  libera  le  energie
          creatrici, altrimenti inclini a rattrappirsi nella passività del meccanismo.  L’opera,
          oltre che segnare un momento importante nello sviluppo del pensiero di Bergson, è

          ancora oggi considerata come uno dei tentativi più acuti di ricondurre a un unico
          principio esplicativo il vario meccanismo del comico.
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