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naturalismo  (1885), I valori morali e l’idea di Dio  (1918), Storia della filosofia

          inglese (1920).
          SOSTANZA.  La parola deriva dal latino substantia,  calco  del  greco hypokéimenon,
          che significa ciò che sta sotto (quod substat). Aristotele indica con l’espressione «
          quello che l’essere era » il primo carattere essenziale della sostanza, e cioè il suo

          permanere  sotto  il  mutamento  degli  attributi,  l’altro  carattere  essendo  l’esistenza
          necessaria. L’opposto della sostanza è quindi l’accidente, che proviene solo dal caso
          e non ha causa determinante. Perciò di esso non può esserci scienza, avendo questa
          per oggetto solo il necessario, e cioè appunto la sostanza.  Il discorso aristotelico
          intorno alla sostanza, assai articolato e complesso, fu fatto proprio dalla scolastica
          medievale, con poche correzioni e integrazioni.
          Le determinazioni della necessità interna e della non accidentalità sono state accolte
          anche dalla filosofia moderna, a partire da Cartesio. Spinoza per parte sua dimostra

          nell’Etica che la sostanza, oltre che esistere necessariamente, deve essere unica e
          infinita; essa viene quindi identificata con Dio che solo « è in sé e si comprende per
          mezzo di sé ».  Nella « rivoluzione copernicana » di  Kant la sostanza diventa una
          categoria dell’intelletto, ma il mutamento di status ontologico non altera i connotati
          del concetto: legare i contenuti empirici mediante la categoria di sostanza vuol dire

          affermare « l’interna necessità del permanere dei fenomeni ». Anche per Hegel resta
          vero che « la sostanzialità … è la potenza della necessità » (Enciclopedia, I, 151).
          La  controversia  intorno  alla  sostanza,  che  determina  una  delle  grandi  linee  di
          demarcazione della filosofia moderna, non verte perciò sul significato del concetto,
          ma  sulla  conoscibilità  o  sulla  esistenza  dell’aspetto  dell’essere  che  il  termine
          designa.  La  gnoseologia  empiristica,  attenendosi  sempre  più  rigorosamente  al
          criterio  di  riconoscere  come  significanti  solo  le  idee  fornite  di  un  contenuto
          rappresentativo, è liberata gradualmente dalla presenza ingombrante di quell’ « ens

          rationis ». Dopo le perplessità agnostiche di Locke, Berkeley riduce tutte le qualità
          percepite a modificazioni dell’io e afferma quindi la totale superfluità del concetto
          di sostanza materiale. Hume compie la stessa operazione sulla sostanza spirituale:
          tanto  la  nozione  di  oggetto  quanto  quella  di  io  sono  per  lui  ipotesi  funzionali,
          costruite  per  spiegare  il  fatto  della  contiguità  e  della  compresenza  più  o  meno

          costante di alcune rappresentazioni.
          I pensatori sensibili all’istanza metafisica hanno cercato di attaccare i punti deboli
          della  riduzione  empiristica  e  sono  rimasti  fedeli  alla  nozione  tradizionale  di
          sostanza. Un esempio classico di tale atteggiamento è la critica di Rosmini a Locke,
          così  come  è  tipico  il  ricorso  al  concetto  di  sostanza  da  parte  del  personalismo,
          preoccupato  di  fondare  saldamente  l’autonomia  e  la  dignità  della  persona.
          Sull’opposto versante, le filosofie più aperte alla problematica e alla metodologia

          delle  scienze  rifiutano  il  presupposto  metafìsico  di  un  mondo  ordinato  secondo
          strutture necessarie. La sostanzialità torna così a ridursi, sulla linea del pensiero di
          Hume,  a  un  modo  improprio  di  designare  il  fatto  dell’esistenza  di  relazioni
          relativamente  costanti.  A  un  atteggiamento  fortemente  critico  nei  confronti  della
          nozione dell’io come sostanza sono anche ispirate le correnti più importanti della
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