Page 738 - Dizionario di Filosofia
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base dell’esperienza diretta della realtà fenomenica. Ma poiché tale esperienza è per

          l’uomo  sempre  parziale  e  fallace,  egli  può  raggiungere  solamente,  attraverso
          l’osservazione e la sperimentazione, una limitata, seppure utile e valida, conoscenza.
          Solo  Dio  possiede  una  conoscenza  assoluta,  davanti  alla  quale  l’uomo  può
          unicamente sostenere che nihil scitur (nulla si sa). Fu considerato uno dei principali
          esponenti dello scetticismo tardorinascimentale, esposto nella sua opera principale
          (De multum nobili et prima universali scientia quod nihil scitur, 1581).

          Bibliogr.:  Importante  la  traduzione  spagnola  di Quod  nlnil  scitur  (Que  nada  se
          sabe), a cura di  M.  Menendez y  Pelayo,  Buenos Aires 1944; su  S.:  J.  Owen, The
          skeptics of the french renaissance, Londra 1893; E. Senchet, Essai sur la méthode
          de  Francisco  Sanchez,  Parigi  1904;  M.  Menendez  y  Pelaio, Ensayos  de  critica
          filosofica, Madrid 1918.

          ŚĀNKARĀCIĀRYA  o ŚĀNKARA,  uno  dei  maggiori  filosofi  indiani  (790-820  circa
          d.C.).  Elaborò  il  monismo  assoluto  del  vedānta,  sulla  base  del  pensiero  di
          Nāgārjuna. La sua opera più importante è un commento al Brāhmasūtra.

          SĀNKHYA  o SAMKHYA.  Uno  dei  sistemi  filosofici  del  brahnianesimo.  Il  termine
          significa  in  sanscrito  «  numerico  »  e  allude  verosimilmente  all’uso  delle
          enumerazioni nelle opere che espongono il sistema. La tradizione indiana fa risalire
          la  prima  formulazione  della  dottrina  a  Kapila,  vissuto  nel VI sec. a.C.; tuttavia la
          trattazione più completa si trova nella Sānkhyakārikā, breve opera in versi dovuta a
          īśvarakrsna  (VI  sec.  d.C.?),  largamente  commentata  nelle  epoche  successive.  Il
          sānkhya ammette due principi eterni ed increati, prakrtī* o « natura » indifferenziata

          che  si  evolve  secondo  una  propria  legge,  e Purusa*  o  «  spirito  »,  del  tutto
          indipendente dalla prakrti. Il riconoscere tale indipendenza porta alla liberazione dal
          ciclo  delle  trasmigrazioni:  si  ritiene  che  questo  aspetto  della  dottrina  abbia
          influenzato il buddhismo.

          SANSIMONISMO. Dopo la morte di Saint-Simon i suoi seguaci si riunirono in una vera
          e propria setta, organizzata come una chiesa (con un proprio monastero nel quartiere
          parigino di Ménilmontant), con a capo i « padri » Bazard ed Enfantin. Veicoli per la
          diffusione del pensiero sansimoniano furono i giornali Le producteur (1825-1826) e
          Le globe  (1831),  mentre  la  sistemazione  teorica  fu  operata  nel  volume  collettivo
          Dottrina  di  Saint-Simon.  Esposizione  (1829-1830).  La  teoria  sociale  del
          sansimonismo,  fondata  sulla  condanna  della  proprietà  privata  e  dello  sfruttamento
          dei lavoratori, propugnava « la distruzione del diritto ereditario » e la riunione degli

          strumenti di lavoro, delle terre e dei capitali in un « fondo sociale » a disposizione
          dei lavoratori riuniti in associazioni organizzate gerarchicamente.
          La rottura di Bazard e di Enfantin, se dette l’avvio alla dissoluzione della setta, non
          implicò però la fine del sansimonismo. Le grandi imprese finanziarie e industriali
          della Francia di Napoleone III ebbero come animatori seguaci di Saint-Simon o di

          Bazard,  fermi  nella  convinzione  che  il  progresso  morale  sarebbe  stato  una
          conseguenza necessaria del progresso materiale e che lo sviluppo della scienza e
          della  tecnica  avrebbe  apportato  agli  individui  e  agli  Stati  un  benessere  tale  da
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