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è appunto nella pretesa di costruire una scienza del noumeno. L’organo della
metafisica è la ragione in senso stretto, intesa come facoltà che aspira a cogliere
l’assoluto e l’incondizionato. Disancorandosi dai limiti posti dall’intuizione, la
ragione metafisica costruisce le idee, e il tema della Dialettica trascendentale è
appunto la dimostrazione dell’impossibilità che esse diventino oggetti di scienza.
L’esigenza dell’assoluto, che le idee attestano, è legittima e insopprimibile, ma il
modo in cui la metafisica pretende di soddisfarla è condannato a sicuro fallimento.
Kant ritiene che quell’aspirazione trovi una risposta positiva e legittima in un altro
ordine, che è quello della vita morale.
Questo tema fu affrontato nella Critica della ragion pratica* (1788). Se la prima
Critica presuppone l’opera di Hume, anche come riferimento polemico, oltre che
come benefico stimolo a svegliarsi dal « sonno dogmatico », la seconda si trova in
una relazione analoga col pensiero di Rousseau. La lettura di Rousseau insegnò a
Kant che il valore dell’uomo non dipende dalla ricchezza delle sue conoscenze
(concezione « democratica » della dignità umana, alla quale Kant era del resto
preparato dalla sua educazione pietistica) e lo rese al tempo stesso diffidente dinanzi
all’indeterminatezza e alla ambiguità della nozione rousseauiana di « sentimento ».
La moralità non può avere una misura così variabile e soggettiva, come quella
costituita dalla mutevole e incostante « sensibilità ». C’è al contrario in ogni uomo la
consapevolezza che la moralità è essenzialmente dovere, tensione di adeguamento
della propria condotta a una norma assoluta. A tutte le azioni dell’uomo, di questo
essere scisso fra le sue inclinazioni naturali e la sua razionalità, è sempre sotteso un
comando (imperativo) della ragione. Tali imperativi vengono da Kant chiamati
ipotetici, quando la ragione interviene come criterio della convenienza del mezzo
rispetto al fine voluto, sicché lo schema di essi è sempre il seguente: « se vuoi
questo, fa’ quest’altro ». Ora il carattere specifico del comando morale è invece
quello di una imperatività incondizionata: tutti sanno che certe cose vanno fatte
perché così la coscienza ordina, indipendentemente da ogni valutazione delle
possibili conseguenze dell’azione. Kant chiama perciò il comando della coscienza
morale imperativo categorico, e questa categoricità implica da un lato l’assoluta
irrilevanza delle condizioni storico-empiriche dell’azione (e quindi la svalutazione a
formule puramente esterne delle leggi dello Stato), dall’altro il fondamento
puramente razionale dell’imperatività. Nel corso ulteriore dell’indagine la critica
della ragione pratica si converte in una nuova metafìsica. In primo luogo la capacità
dell’uomo di agire autonomamente, emergendo dal condizionamento dell’ordine
naturale, entro il quale egli è pure inserito, esige che gli venga riconosciuta
l’appartenenza a un ordine di realtà diverso da quello fenomenico: l’autonomia lo fa
cittadino di un universo intelligibile, non condizionato dallo spazio, dal tempo e
dalle categorie. In secondo luogo alla coscienza della legge morale è intimamente
connessa la fede in alcune verità che, seppure ambigue teoreticamente, ci si
impongono come condizioni imprescindibili della moralità. Sono i postulati della
ragione pratica, e cioè quello della libertà, quello dell’immortalità dell’anima e
quello dell’esistenza di Dio.