Page 186 - Dizionario di Filosofia
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portarono alle estreme conseguenze questo tema opponendo la cultura, viva e
fiorente, alla civiltà, stato di maturità prossimo alla decadenza. Molte critiche furono
rivolte a questa e consimili teorie che avevano un significato più polemico che
scientifico. Si affermò (riecheggiando tra l’altro le tesi del Michelet, per il quale la
storia delle civiltà si sarebbe dovuta concepire come « storia totale ») che
descrivere la civiltà di un popolo significa certo rievocarne il contesto politico,
economico e sociale in cui tale cultura poté svilupparsi. I ritmi vitali, gli aspetti
quasi biologici della storia delle società umane hanno attratto l’attenzione di storici e
filosofi: già i pensatori dell’antichità videro un fatale susseguirsi, nella storia dei
regimi politici e sociali, di grandezze e di decadenze irreversibili. L’idea di ciclo
andò in tal modo imponendosi a chi rifletteva sulla storia delle civiltà. Si ricordino i
« corsi e ricorsi » vichiani, o le teorie di Comte, secondo il quale ogni civiltà
passerebbe attraverso tre stadi, uno teologico, un secondo metafisico, per giungere
infine al più completo stadio, quello positivo.
La successione marxista è invece più complessa (configurandosi attraverso cinque
momenti principali: primitivo, schiavista, feudale, capitalista e socialista) e più
comprensiva, dato che mette in gioco gli aspetti fondamentali — infrastrutture e
sovrastrutture — della nostra civiltà. A sua volta il sociologo inglese Arnold
Toynbee propone una « filosofia della storia » in cui fa appello al contesto
geografico e umano attraverso la teoria della sfida e della risposta (un gruppo umano
ha successo quando raccoglie la sfida di una natura ingrata, d’un ambiente umano
ostile); quindi classifica le civiltà maggiori (una ventina), che hanno avuto una vita
spirituale coerente.
Questo organicismo, che induce a elaborare per le nostre società leggi paragonabili a
quelle della natura, ha le sue lontane radici nelle concezioni cicliche di molte
mitologie. I moderni, che hanno, a loro modo, ripreso quelle teorie, poterono riuscire
suggestivi con le loro ingegnose spiegazioni, sforzandosi di comprendere in un solo
concetto tutta l’evoluzione dell’umanità. Eppure, sovente queste costruzioni non
possono reggersi senza abili aggiustamenti, che forzano la realtà e deformano, per
esigenze dimostrative, tale o tal altro aspetto di una civiltà; la teoria della sfida di
Toynbee, per es., conosce infinite eccezioni. Lo stesso concetto di « morte » di una
civiltà è profondamente ambiguo. Così, da una cinquantina d’anni, gli storici vanno
ritrovando le sopravvivenze di tradizioni celtiche nelle regioni dell’Europa
occidentale: culti, tecniche, ecc., che la romanizzazione prima e la cristianizzazione
dopo non riuscirono a eliminare.
Troppo spesso, infatti, si è dimenticato che non vi sono mai state civiltà senza
scambi, acquisizioni, influssi positivi e negativi: tutta una serie di osmosi, azioni e
reazioni nello spazio e nel tempo, che assicurano la continuità profonda delle civiltà,
al di sopra delle rotture politiche, delle catastrofi, delle apparenti interruzioni.
In tal modo, la complessità degli scambi, dei reciproci influssi, delle discontinuità
apparenti e reali autorizza, da una parte, a usare la nozione di stadio, di momento,
all’interno di una stessa civiltà di lunga durata; d’altra parte impone di ricusare ogni
confronto, ogni paragone globale, che vorrebbe abbracciare la totalità