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determinato, una forma di vita sociale, disciplinata da norme adeguate di convivenza
umana e fondate su un certo patrimonio materiale e spirituale di tradizioni e di
cultura. Incivile o « selvaggia » (da selva) fu invece detta la società degli « uomini
della foresta », viventi al di fuori di qualsiasi legge umana e divina. Civile, per es.,
venne considerato in primo luogo il mondo cristiano, e anche quello islamico e
asiatico; e selvaggio il mondo degli autoctoni dell’Africa e dell’America, così come
vennero descritti — con maggiore o minor fantasia — dai primi esploratori italiani,
iberici e francesi.
A tale statica contrapposizione fra civiltà e inciviltà andò sostituendosi, fin dalla
prima metà del Settecento, la dinamica concezione del Vico: tra l’uno e l’altro stato
venne intravista dal filosofo italiano una continuità, dal semplice (selvaggio) al
complesso (civile). Civiltà e il suo contrario vennero inquadrati nella teoria generale
vichiana dei « corsi e ricorsi », secondo la quale la vita dei popoli si svolgerebbe in
tre stadi successivi (del senso, della fantasia, della ragione) e ricorrenti, anche se in
forme nuove.
Gli illuministi francesi, intorno alla metà del Settecento, e specialmente Voltaire, nel
suo Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756), individuarono anch’essi
una continuità dinamica nel processo di incivilimento (civilisation): processo
continuo — anche se qua e là interrotto da battute d’arresto e da regressi — di
elevamento della specie umana da una condizione inferiore di barbarie, propria dei
selvaggi, a una condizione superiore di civiltà, a sua volta continuamente
perfezionantesi. Questa concezione, tuttavia, fu capovolta, più o meno nello stesso
periodo, da J.-J. Rousseau, che contrapponeva le « virtù » del buon selvaggio di
contro alla « corruzione » del « civilizzato ». Contributi importanti alla definizione
del concetto di civiltà vennero, oltre che dal Condorcet nel suo Abbozzo di un
quadro storico dei progressi dello spirito umano (1793), anche dagli illuministi
scozzesi: in particolare da A. Ferguson, con la sua Storia della società civile (1767)
e J. Miller, Osservazioni sulla differenza delle classi nella società (1771).
Dai dibattiti e dalle ricerche che accompagnarono e seguirono queste teorie poté
emergere la concezione etnologica della civiltà, che riconosceva a ciascun gruppo
umano, a ciascuna società, una propria civiltà, più o meno antica, più o meno ricca:
gli uomini dell’età della pietra come gli Incas, i Greci del tempo di Pericle e i
popoli barbari, Sciti, Parti ebbero una loro civiltà (oggi si preferisce usare il termine
cultura). Oggi la visione che può dirsi brevemente « volteriana » può considerarsi
alla base dell’accezione « volgare » del termine, mentre quella « etnologica », dalle
elaborazioni del Romanticismo del primo Ottocento ai giorni nostri, ha costituito un
punto di partenza per le successive formulazioni scientifiche e storicofilosofiche
aventi per oggetto « le civiltà ». Gli sconfinamenti tuttavia, da una parte e dall’altra,
non sono mancati. È rimasta per es. come eredità del XVIII sec. una fede salda, anche
se non sempre chiaramente espressa, nella perfettibilità dell’individuo e delle
società umane; si è mantenuta l’abitudine di classificare, di qualificare, distinguendo
per es. le civiltà « raffinate » della Cina, del Giappone, da quelle « rozze » dei
Fuegini o degli Ottentotti. Intorno al 1920, alcuni scrittori tedeschi (come Spengler)