Page 137 - Il giornalino di Gian Burrasca
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- Guarda un po' di ricordarti bene, caro Giannino... - mi disse la mamma dopo che ebbi letto la
            lettera del notaro. - Pensa a quello che facesti in quei giorni che rimanesti in casa del Maralli... Non
            c'è il caso che ci sia sotto qualche altro dispiacere?
               - Uhm! - risposi io. - Ci fu l'affare del dente...
               - È curiosa! - esclamò l'Ada. - Non si è mai sentito un altro esempio di invitare un ragazzo ad
            assistere alla lettura di un testamento...
               - Se ti avesse lasciato qualcosa si capirebbe - aggiunse la mamma. Ma di questo non c'è pericolo
            dopo tutto quel che gli facesti...
               - E poi, - osservò mia sorella - la lettera parla chiaro: sebbene, dice, nessuna delle disposizioni
            testamentarie qui contenute lo interessino... Dunque!
               - In ogni modo, - concluse la mamma - non diremo niente al babbo, hai capito! Ché se c'è
            qualche strascico d'allora non vorrei che compromettesse quel che hai acquistato dacché sei tornato
            di colleggio e ti mettessero in una Casa di correzione...
               Siamo rimasti dunque d'accordo che alle ore quindici Caterina si sarebbe trovata fuori della porta
            di casa per dire al vetturino di attendere senza fargli suonare il campanello e che io sarei salito zitto
            zitto nella carrozza annunziata dalla lettera del notaro. Al babbo, la mamma e l'Ada avrebbero detto
            di avermi mandato a divertirmi dalla signora Olga.
               È inutile dire con quanto desiderio abbia aspettato l'ora fissata.
               Finalmente Caterina è venuta a chiamarmi e io sono sgusciato via di casa e son montato nella
            carrozza che mi aspettava con lo sportello aperto. Dentro c'era un uomo tutto vestito di nero che mi
            ha detto:
               - È lei Giovannino Stoppani?
               - Sì; e ho qui la lettera...
               - Benissimo. -
               Quando, poco dopo, sono entrato nello studio del notaro Ciapi c'era il sindaco, e poco dopo è
            arrivato il mio cognato Maralli che appena mi ha visto ha alzato tanto di muso, ma io ho fatto finta
            di nulla e invece ho salutato la sua donna di servizio Cesira, che è arrivata subito dopo di lui e che è
            venuta a mettersi a sedere accanto a me, e mi ha domandato come stavo.
               Il notaro Ciapi stava seduto su una poltrona, davanti a un tavolino. Questo notaro è un tipo buffo,
            piccolo piccolo e grasso grasso, con una faccia tonda mezza affogata dentro una papalina ricamata,
            con una nappa che gli vien sempre sull'orecchio e che egli cerca di cacciar via con certe scrollatine
            di testa come farebbe uno che avesse i capelli troppo lunghi sulla fronte per mandarseli indietro.
               Egli ci ha guardato tutti e poi ha suonato il campanello e ha detto:
               - I testimoni! -
               E son venuti due così neri neri, che si son messi tra me e il notaro, il quale ha preso uno
            scartafaccio e ha cominciato a leggere con voce nasale, come se avesse avuto da dire un'orazione:
               - In nome di Sua Maestà il re Vittorio Emanuele III felicemente regnante... -
               E giù una filastrocca di cose nelle quali non capivo niente finché poi a un certo punto incominciò
            a leggere proprio le parole dettate dal signor Venanzio prima di morire e quelle le capii benissimo.
               Naturalmente non posso ricordarmi le frasi precise, ma ricordo le cifre dei diversi làsciti, e
            ricordo anche che tutte quelle disposizioni testamentarie erano dettate in un modo curioso, con uno
            stile pieno di ironia come se il povero signor Venanzio nell'ultima ora della sua vita si fosse preso il
            supremo divertimento di pigliare in giro tutti quanti.
               La prima disposizione era di dare dal suo patrimonio la somma di diecimila lire alla Cesira, e non
            saprei ridire la scena che nacque quando il notaro ebbe letto questo paragrafo del testamento. La
            Cesira alla notizia di quella fortuna si svenne e tutti corsero attorno, fuori che il Maralli che diventò
            pallido come un morto e guardava la sua donna di servizio con due occhi come se la volesse
            mangiare.
               Eppure a sentire il povero signor Venanzio, che spiegava tutte le ragioni per le quali lasciava tutti
            quei quattrini a quella ragazza, pareva che l'avesse fatto proprio per far piacere al suo nipote.
               - Io lascio questa somma alla nominata Cesira Degli Innocenti (su per giù diceva così) prima di
            tutto per gratitudine mia verso di lei che, nella casa di mio nipote ove passai gli ultimi anni della
            mia vita mi trattò con ogni riguardo, superando in gentilezze perfino i miei parenti. Basta dire che
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